domenica 18 marzo 2018

Una nuova fisica al lavoro nell’Universo?


Nel 1929 Hubble annunciò che la velocita’ radiale delle galassie era proporzionale alla loro distanza. In altre parole piu’ una galassia e’ distante da noi, piu’ la sua velocita’ di allontanamento e’ elevata. Il grafico seguente mostra i dati raccolti da Hubble con la velocita’ delle galassie riportata in ordinata e le loro distanze sulle ascisse:

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La pendenza della retta che interpola queste misure è ora nota come costante di Hubble H. Dato che sia i kilometri che i Megaparsec sono unità di distanza, l'unità di misura di H è [1/tempo], essendo la velocita’ il rapporto tra spazio e tempo. Ma cosa rappresenta H? Il suo inverso e’ proprio l’eta’ dell’universo secondo la relazione di Hubble:

V=HD      da cui     D=V/H=Vt   con    t=1/H   appunto l’eta’ dell’universo.

Hubble trovo’ per il rapporto 1/H il valore di circa 2 miliardi di anni. Dal momento che tale valore dovrebbe approssimare l'età dell'Universo, e noi sappiamo (era noto anche nel 1929) che l'età della Terra supera i 2 miliardi di anni, il valore di H trovato da Hubble portò ad un generale scetticismo nei confronti dei modelli cosmologici, e fornì una motivazione a favore del modello stazionario, cioe’ quello di un universo non in espansione.

Tuttavia, pubblicazioni successive misero in luce alcuni errori compiuti da Hubble nelle sue misure. La correzione di questi errori portò ad un ridimensionamento verso il basso del valore della costante di Hubble. Attualmente il valore della costante e’ di 65±8 km/s/Mpc.
Con questo valore di H, l'età approssimativa dell'Universo è di 15 miliardi di anni. Qui di seguito i risultati recenti sulla relazione di Hubble la cui pendenza e’ pari a 65 Km/sec/Mpc.

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Ma come faceva Hubble a misurare la velocita’ di una galassia lontana? Utilizzando quello che va sotto il nome di spostamento verso il rosso (redshift). La luce o una qualsisi altra radiazione elettromagnetica emessa da un oggetto in movimento ha una lunghezza d'onda maggiore di quella che aveva all'emissione. Ciò equivale a dire che nel caso della luce il colore si sposta nella direzione del rosso che e’ l'estremo inferiore dello spettro del visibile. Al contrario se un’oggetto si sta avvicinando la luce emessa si sposta verso il blu.

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Se indichiamo con Le la lunghezza d’onda emessa e con Lo quella osservata e’ possibile scrivere:

1+ z=[(1+v/c)/(1-v/c)]1/2

dove c indica la velocita’ della luce, v la velocita’ dell’oggetto e il parametro z e’ dato da:

z=(Lo-Le)/Le

Quindi dalla misura di z cioe’ dello shift della luce si puo’ risalire alla velocita’ dell’oggetto che ha emesso la luce.

Per misurare la distanza delle galassie invece, Hubble aveva a disposizione tre metodologie ognuna valida per un certo intervallo di distanze. Il metodo piu’ antico e’ quello della parallasse che va bene per stelle non oltre i 500 anni luce. Si tratta di una tecnica geometrica che sfrutta lo spostamento delle stelle in primo piano rispetto a quelle fisse dovuto alla rotazione della terra intorno al sole. Il secondo metodo e’ quello delle Cefeidi, un tipo di stelle la cui luminosita’ varia periodicamente e che permettono di calcolare la loro distanza sfruttando la relazione tra quest’ultima e il periodo della loro luminosita’. L’intervallo di applicabilita’ va fino a circa 10 milioni di anni luce. L’ultimo metodo e’ quello delle supernove. Valutando l’andamento della luminosita’ di queste stelle subito dopo la loro esplosione e’ possibile calcolarne la luminosita’ assoluta e quindi la loro distanza. Questa tecnica permette di arrivare a distanze di alcune centinaia di milioni di anni luce.


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Ma ritorniamo adesso alla costante di Hubble. E’ di qualche mese fa la notizia dell’utilizzo del telescopio spaziale Hubble per stabilire la misura piu’ precisa mai ottenuta della costante di Hubble. I risultati sono molto intriganti e sembrano evidenziare che ci sia qualche cosa di inaspettato al lavoro nell’universo. Questo perche’ i risultati confermano una fastidiosa discrepanza che mostra l’universo espandersi piu’ velocemente di quanto previsto dai dati relativi ai primi istanti del big bang. Il team di ricercatori capeggiato dal premio Nobel, Riess incluso anche l’italiano Stefano Casertano e Johns Hopkins, ha utilizzato Hubble per 6 anni aumentando il numero di stelle analizzate e con distanze fino a 10 volte maggiori di quelle ottenute precedentemente. Il valore della velocita’ di espansione ottenuto mostra una discrepanza di circa il 9% rispetto a quello previsto considerando i primi 378.000 anni dopo il Big Bang. Prima delle misure del telescopio Hubble, quelle effettuate dalla Agenzia spaziale Europea grazie al satellite Planck, avevano previsto per la costante di Hubble un valore intorno a 67 Km/sec per Megaparsec e non piu’ alto di 69 Km/sec/Mpc. Ma le misure recenti ottenute dal team di Riess riportano un valore della costante di Hubble di ben 73 Km/sec per Megaparsec, indicando che le galassie si stanno muovendo ad una velocita’ di allontanamento maggiore di quella prevista. I risultati della misura della costante di Hubble sono cosi precisi che gli astrofisici non possono non tener conto di questa incongruenza. Il team ritiene che alcune delle possibili spiegazioni per questa differenza siano legate all’universo oscuro che e’ il 95% della materia/energia contenuta nel nostro universo. La materia normale come stelle, pianeti e gas si crede costituisca solo il 5% del nostro universo. Il rimanente per il 25% e’ materia oscura e il 70% energia oscura, entrambi invisibili e mai rilevati in modo diretto. Vediamo la prima possibilita’. L’energia oscura, gia’ conosciuta in passato come fattore di accelerazione del nostro universo, sta spingendo lontano da noi le galassie con molta piu’ forza di quanto previsto. Questo potrebbe significare che l’accelerazione stessa potrebbe non essere costante ma cambiare nel tempo. Se questo fosse vero bisognerebbe allora rivedere il cosiddetto modello ACDM (Lambda cold dark matter) che spiega l’accelerazione del cosmo con la comparsa e scomparsa di particelle virtuali nello spazio vuoto che stirano lo spazio-tempo. Questo continuo ribollire del vuoto infatti non potrebbe spiegare un accelerazione che cambia col tempo.

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Un’altra idea e’ quella che l’universo contenga delle nuove particelle subatomiche che viaggiano ad una velocita’ prossima a quella della luce. Si tratta di particelle velocissime, chiamate collettivamente “radiazione oscura”. Probabilmente si tratta di qualche cosa simile alle note particelle chiamate neutrini, creati nelle reazioni nucleari e nei decadimenti radioattivi. Diversamente da un neutrino normale pero’ che interagisce tramite la forza debole, queste nuove particelle dovrebbero essere influenzate solo dalla forza di gravita’ ed e’ per questo che hanno ricevuto il soprannome di “neutrini sterili”. Per analogia con i fotoni che sono i mediatori della forza elettromagnetica tra particelle, i neutrini sterili dovrebbero essere i mediatori delle interazioni tra particelle di materia oscura. E come per le particelle di materia oscura, anche la radiazione oscura non interagisce con la materia nominale. L’ultima possibile spiegazione e’ che la materia oscura interagisca piu’ fortemente con la materia nominale e/o la radiazione di quanto assunto fino ad ora. Al momento il team di Riess non ha una risposta al problema anche se sta continuando a raccogliere misure di stelle lontane per cercare di abbassare ulteriormente l’incertezza e migliorare la precisione sul valore della costante di Hubble.

Dove e’ possibile arrivare partendo da questo risultato?

Guardando i risultati ottenuti fino ad oggi e’ possibile come riportato da Riess, che l’energia oscura giochi un ruolo importante anche se e’ piu’ probabile che sia una qualche nuova particella o qualche cosa che ha a che fare con come interagisce la materia oscura. Normalmente quest’ultima viene considerata come costituita da WIMP, cioe’ da particelle pesanti che interagiscono debolmente con la materia nominale. Bene e’ possibile che l’interazione in fin dei conti non sia cosi debole come pensato. Questo potrebbe cambiare le cose e dare origine ad un qualche cosa simile all’universo che vediamo noi.

E se lo dice il premio Nobel Riess forse c’e’ da credere. Aspettiamo con impazienza le prossime scoperte. Fate le vostre scommesse. La fisica sta diventando misteriosa e magica.

domenica 25 febbraio 2018

Come torturare i dati per farli parlare

Il post di oggi e’ anomalo. Non si tratta del solito articolo. Ma di due presentazioni fatte alcuni anni fa per introdurre le tecniche di data mining/machine learning e  un ottimo software free (Orange) che ognuno puo’ scaricare ed utilizzare per fare un po’ di pratica. In queste slides vengono descritti i concetti base del machine learning, delle tecniche analitiche e del data mining quali decision tree, clustering, analisi di Bayes, association rules, self organizing maps, supported vector machines, random forest etc . L’idea alla base di queste due presentazioni è stata quella di introdurre i partecipanti (adesso i lettori del blog) nel mondo degli algoritmi sviluppati dalla cosiddetta computer science di cui tanto si sente parlare in ambiti quale l’internet delle cose, automobili senza guidatori, robots, droni  solo per citarni alcuni.

Il machine learning e’ fondamentale nello studio dei sistemi complessi in cui a causa dell’elevato numero di componenti e delle loro interazioni fortemente non lineari non si possono modellizzare facilmente. L’unica possibilita’ e’ quella di mettere al lavoro gli analytics oggi disponibili per cercare nella vasta mole dei dati le relazioni fondamentali, i patterns piu’ importanti, le informazioni nascoste come pepite all’interno delle miniere. Gli algoritmi di machine learning permettono di tirare fuori dai dati le informazioni utili riducendo in modo opportuno il volume dei dati. Pensate ad una piramide. Man mano che si sale verso l’alto, cioe’ man mano che il volume diminuisce emerge l’informazione.  MI fermo qui e vi lascio alle circa 200 slides. Buona lettura.  

Data mining e machine learning

Introduzione ad Orange


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domenica 28 gennaio 2018

Gallerie spazio-temporali per unire relativita’ e quantizzazione


Nel 1935, alcuni fisici pubblicarono due articoli in cui venivano introdotti due concetti chiave dell’attuale cosmologia: l’entaglement e i wormholes.

Vediamo un attimo di cosa si tratta partendo dall’entaglement. Secondo la meccanica quantistica, le particelle entagled rimangono connesse tra loro anche se si trovano a distanze quasi infinite. Qualsiasi azione eseguita su una delle due particelle influenza il comportamento dell’altra. Questo significa per esempio che se in seguito ad una misura dello spin di una delle due particelle lo si trova up, quello dell’altra anche se misurato un’istante dopo sara’ down. Lo spin in meccanica quantistica e’ una grandezza fisica associata alle particelle e che ne definisce il loro stato quantico. Questa grandezza e’ una forma di momento angolare, avendo in comune la stessa dimensione. Per analogia richiama alla mente la rotazione di una particella intorno al proprio asse.

L’entaglement ha luogo quando le particelle interagiscono tra loro fisicamente. Per esempio un laser colpendo un particolare tipo di cristallo puo’ generare coppie di fotoni entagled che pur allontanandosi tra loro sempre di piu’ rimangono in connessione. Questa teoria che irrito’ non poco Einstein e’ anche riferita come “la spaventosa azione a distanza”. Come e’ possibile che due particelle anche a distanze enormi possano influenzarsi a vicenda subito se qualsiasi segnale nell’universo non puo’ viaggiare a velocita’ maggiore di quella della luce?

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Passiamo adesso ai wormhole. Grazie alla teoria di Einstein oggi sappiamo che la trama del nostro universo e’ lo spazio-tempo. Esso puo’ essere deformato e distorto. Per fare questo lo spazio-tempo ha bisogno di grandi quantita’ di massa o di energia, ma teoricamente queste distorsioni sono possibili. Nel caso di un wormhole, si tratta di una scorciatoia ottenuta grazie alla deformazione del tessuto spazio-temporale. Immaginiamo di disegnare due punti su di un foglio di carta e di misurarne la distanza. Adesso pieghiamo il foglio in due sovrapponendo i due punti e attraversandoli con una penna. La distanza tra essi e’ decisamente inferiore a quella di prima. E’ esattamente quello che succede con un wormhole. Il problema di queste strutture e’ che essi sono instabili. Quando una particella vi entra dentro crea delle fluttuazioni che fanno collassare la struttura.
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Nel 2013 Leonard Susskind un fisico di Stanford e Juan Maldacena dell’Advanced Study of Princeton hanno ipotizzato che questi due fenomeni siano la stessa cosa e questo potrebbe creare un ponte tra la teoria della relativita’ generale e la meccanica quantistica. Uno dei problemi più difficili che la fisica oggi si trova ad affrontare riguarda proprio queste due teorie  che funzionano perfettamente nel loro dominio di validita’ e che vanno invece in conflitto quando si cerca di combinarle. Susskind e Maldacena hanno riassunto il tutto in un’equazione: ER=EPR.
Non si tratta di un’equazione numerica, ma piuttosto di un’equazione con le iniziali dei nomi di alcuni importanti fisici teorici.
Nella parte a sinistra, ER stanno ad indicare Einstein e Nathan Rosen che in un articolo del 1935 descrissero la struttura dei wormhole, noti tecnicamente come ponti di Einstein-Rosen. A destra, invece, EPR stanno per Einstein, Rosen e Boris Podolsky, quest’ultimo co-autore di un altro articolo di quello stesso anno in cui veniva descritto l’entanglement quantistico. L’equazione semplicemente getta un ponte tra i wormhole e l’entaglement. E questa connessione potrebbe spiegare la continuita’ dello spazio tempo che diventerebbe cosi la manifestazione geometrica dell’entaglement.

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Susskind va oltre e pensa che l’entaglement quantistico sia una forma di informazione, una stringa di 1 e di 0, e che quindi lo spazio tempo altro non sia che una manifestazione dell’informazione quantistica. Il principio ER=EPR, getta le basi per lo sviluppo della gravita’ quantistica anche se al momento non e’ chiaro come. E’ possibile che quando in laboratorio creiamo per esempio dei fotoni entangled questi siano connessi tramite un microscopico wormhole? Al momento nessuno lo sa anche se e’ affascinante pensare di si. In un nuovo articolo Susskind propone uno scenario dove ipotizza che delle particelle inizialmente entagled (correlate) si muovano in direzioni opposte dell’universo. Una volta lontane tra loro queste particelle collassano in buchi neri soggette alla loro stessa forza di gravita’. Secondo Susskind questi due buchi neri sono a loro volta connessi (entangled) tramite un gigantesco wormhole che attraversa l’universo da una parte all’altra. Dunque se l’equazione ER=EPR e’ giusta vuol dire che i due buchi neri saranno collegati da un gigantesco tunnel spazio temporale e l’entaglement altro non e’ che la descrizione geometrica di tali oggetti.
Teoria a dir poco sbalorditiva. Ma c’e’ la possibilita’ di provarla? Difficile dirlo. Di sicuro ci sono sempre piu’ ricercatori che iniziano a studiare questa ipotesi ed e’ possibile che in un prossimo futuro si riesca a gettare luce su uno dei misteri della Natura che assilla le menti di molti scienziati da quasi un secolo.
Secondo Susskind, “sembra ovvio che se ER = EPR è vera, allora siamo di fronte a qualcosa di grosso che potrebbe influenzare le fondamenta e le interpretazioni della meccanica quantisica. Se ho ragione, la meccanica quantistica e la gravità sono ancora di più correlate di quanto (almeno io) abbiamo mai pensato”.
https://arxiv.org/pdf/1707.04354
https://arxiv.org/pdf/1306.0533.pdf
https://arxiv.org/pdf/1604.02589

venerdì 10 novembre 2017

Dallo spazio nuove informazioni sulla piramide di Cheope

La notizia e’ di qualche giorno fa. La soluzione alla fine e’ arrivata dallo spazio nonostante gli sforzi fatti dal califfo Ma’mun intorno all’ 820, dagli avventurieri europei del 800 o dai moderni esploratori di oggi. Un team di fisici (ScanPyramid2017) utilizzando i prodotti delle reazioni dei raggi cosmici con l’atmosfera terrestre ha scoperto una camera al di sopra della Grande Galleria nella piramide di Cheope. I raggi cosmici sono delle particelle energetiche che bombardano continuamente la Terra e provengono dallo spazio esterno. La loro natura e’ varia come anche la loro origine. Il loro spettro energetico e’ distribuito su 14 ordini di grandezza come mostrato qui di seguito dove viene riportato il flusso (numero di muoni per unita’ di superficie, per unita’ di angolo, per unita’ di tempo e per unita’ di energia) in funzione dell’energia. La parte colorata in giallo si pensa provenga dal sole, quella azzura che sia di origine galattica (la nostra Via Lattea) e quella in viola di origine extragalattica.




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Al di sopra dell’atmosfera, i raggi cosmici sono costituiti per circa il 90% da protoni, e per il circa 10% da nuclei di elio. Dopo l’interazione di queste particelle primarie con l’atmosfera terrestre si creano degli sciami di nuove particelle tra cui mesoni, neutroni, protoni ed elettroni. I mesoni a loro volta subito decadono in muoni, particelle elementari con una massa circa 200 volte maggiore di quella dell’elettrone e una vita media di circa 2 microsecondi. Esistono in due stati di carica (positiva e negativa) e sono soggetti oltre all’interazione gravitazionale a quella debole e quella elettromagnetica. La velocita’ con la quale arrivano al livello del mare e’ quasi prossima a quella della luce.


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I muoni fanno parte della cosiddetta componente dura della radiazione secondaria dei raggi cosmici, in quanto riesce a penetrare spessori di materiale di oltre un metro. Ed e’ proprio grazie a questo tipo di particelle penetranti molto piu’ dei noti raggi X, che e’ stato possibile stabilire con buona accuratezza che al di sopra della grande galleria della piramide di Cheope ci sia una seconda camera lunga circa 30 metri. I due colori rosso e blu dell’immagine di seguito indicano la possibile orientazione di questa nuova camera.

clip_image007Gli antichi Egizi edificarono le piramidi non solo come tombe dei faraoni, ma anche come luogo di culto per il Sole. Si dice che gli angoli delle piramidi rappresentino una proiezione dei raggi del Sole che scendono sulla Terra per elevare i faraoni verso il cielo. Nella piana di Giza, oltre alla Sfinge, ci sono le piramidi di Kefren, Micerino e quella di Cheope, l’unica meraviglia del mondo antico conservatasi fino ai giorni nostri e che da sempre ha affascinato gli studiosi perche’ ancora oggi non e’ chiaro come sia stata edificata. Secondo l’egittologia classica essa venne costruita dal faraone Khufu (anche conosciuto come Cheope) tra il 2509 e il 2483 AC con dei blocchi di granito e calcare e con un’altezza di circa 140 metri. In origine, era coperta da un rivestimento in pietra che formava una superficie esterna liscia; ciò che si vede oggi è la struttura di base sottostante. Alcune delle pietre del rivestimento che un tempo ricoprivano la struttura sono ancora visibili attorno alla base. Ci sono state diverse teorie scientifiche e alternative circa le tecniche di costruzione della Grande Piramide. Le ipotesi di costruzione più accreditate si basano sull'idea che la piramide sia stata edificata spostando da una cava enormi blocchi che una volta trascinati siano stati sollevati in posizione. Si e’ sempre pensato che questa piramide avesse tre stanze: la camera sotterranea, la camera della regina e la camera del re. Queste camere sono connesse tra loro da diversi corridoi, di cui la Grande Galleria e quello piu’ importante. Tutto questo fino all’arrivo della nuova scoperta. clip_image009Per vedere attraverso la piramide, i ricercatori hanno usato una tecnica sviluppata dai fisici delle alte energie che sfruttano degli appositi rivelatori per segnalare il passaggio dei muoni. In pratica si tratta di una radiografia che invece di utilizzare i raggi X adatti per le ossa, usano i muoni, particelle che ci bombardano quotidianamente ad un ritmo di circa 10000 per minuto e per metro quadro. Questa tecnica e’ stata usata con successo per lo studio di vulcani e per individuare tra l’altro i danneggiamenti prodotti dal reattore nucleare di Fukushima in Giappone giusto per fare qualche esempio.
Nel 2015, il professore Kunihiro Morishima dell’universita’ giapponese con un suo team di ricercatori, piazzo’ dei rivelatori all’interno della camera della regina, allo scopo di rivelare il passaggio dei muoni dall’alto della piramide. Ovviamente queste particelle vengono parzialmente assorbite o deviate dalla pietra sovrastante la camera della regina, in modo che ogni cavita’ nella piramide dovrebbe permettere a piu’ muoni di raggiungere i rivelatori. Il flusso integrato di muoni I(rho,theta) raccolti dai rivelatori e’ dato dalla formula:

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dove I e’ il numero di muoni che arrivano al rivelatore per unita’ di area, di angolo e di tempo (cm-2 sr-1 sec-1). Emin rappresenta l’energia minima necessaria ad un muone per attraversare la roccia di densita’ rho prima di colpire il rivelatore. E’ in questa variabile che entra in gioco la composizione del materiale che viene attraversato dai muoni, e che nel nostro caso e’ la roccia della piramide. La quantita’:
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rappresenta lo spettro dei muoni incidenti con un’energia E0 e ad un angolo theta, cioe’ il numero di muoni per unita’ di energia, per unita’ di angolo per unita’ di area e per unita’ di tempo. Questa funzione puo’ avere diverse forme a secondo del modello utilizzato. Qui di seguito un esempio di flusso integrato dei muoni in funzione della lunghezza (in metri di roccia equivalenti) della roccia attraversata ad un particolare angolo di incidenza per diversi modelli di spettro muonico phi (Gaisser/Music, Reyna/Bugaev, Reyna/Hebbeker).clip_image013Dopo alcuni mesi di raccolta dati, ci fu il sospetto che potesse esserci realmente una cavita’ al di sopra della grande galleria. Per questo motivo altri 2 teams di ricercatori franco-giapponesi entrarono nel progetto piazzando altri rivelatori all’interno e all’esterno della grande piramide. I risultati pubblicati su Nature alcuni giorni fa sono esattamente il resoconto del lavoro di questi 3 teams negli ultimi 2 anni. Qui di seguito delle immagini dei rivelatori usati in diversi punti della piramide. Si tratta di 3 tipi diversi di rivelatori. I primi due a partire dalla sinistra sono dei rivelatori ad emulsione, mentre gli ultimi due sono dei rivelatori scintillanti e a gas rispettivamente.


clip_image015I rivelatori ad emulsione sono stati realizzati usando un film fotografico speciale capace di rivelare i muoni come si vede nell’immagine seguente. Il film fotografico e’ realizzato con cristalli di bromuro di argento del diametro di 200 nm coperti poi con un film di polistirene trasparente. Quando la particella passa attraverso lo strato di emulsione (vedi immagine c) la sua traiettoria tridimensionale viene registrata e puo’ essere rivelata grazie allo sviluppo fotografico successivo. Grazie alla conoscenza precisa della dimensione e struttura dei grani di bromuro di argento, le tracce delle particelle possono essere ricostruite con un accuratezza minore del micron.


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clip_image019I risultati ottenuti in due diversi punti della piramide indicati con NE1 ed NE2 nei due anni di collezionamento dati (a e b qui sotto) sono stati confrontati con quelli ottenuti da simulazione Montecarlo considerando la struttura della piramide oggi conosciuta (c e d). Questi confronti mostrano chiaramente che le strutture conosciute si vedono dove ci si aspetta di vederle e che in piu’ si nota un chiaro segnale di muoni in eccesso (scritta new void). La quantita’ di muoni in eccesso e’ paragonabile a quella generata dalla grande galleria e quindi e’ logico pensare che la dimensione di questa nuova camera sia confrontabile a quella della grande galleria.

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clip_image023Oltre alle emulsioni sono stati utilizzati anche dei rivelatori a scintillazione. Si tratta di 4 strati di scintallatore plastico ognuno costituito da 120 barre di 1x1 cm2. Ricordiamo che uno scintillatore e’ un materiale capace di emettere luce visibile o ultravioletta quando viene attraversato da particelle cariche o fotoni. Qui di seguito le immagini ottenute in due posizioni diverse H1 e H2 della piramide e con c e d le immagini ottenute con la simulazione Montecarlo. Come per le emulsioni si nota un chiaro segnale che indica una regione vuota al di sopra della grande galleria (e ed f).clip_image025La terza specie di rivelatori utilizzata per l’esperimento e’ stata quella a gas. Quando una particella entra nel serbatoio contenente il gas lo ionizza e gli elettroni strappati vengono spinti verso l’elettrodo a potenziale positivo. In prossimita’ di questo gli elettroni riescono a creare delle vere e proprie valanghe ioniche che colpiscono il rivelatore.clip_image026Si tratta di rivelatori molto robusti che possono essere utilizzati anche all’esterno. Ognuno di questi rivelatori e’ costituito da 4 aree attive identiche di dimensione 50x50 cm2. Essi sono stati piazzati di fronte alla faccia nord della piramide, puntati nella direzione della grande galleria. Dopo 2 mesi di acquisizione dati si ‘ registrato un eccesso significativo di muoni che avevano colpito i rivelatori a gas confermando ancora una volta la presenza di un vuoto al di sopra della galleria. Qui di seguito le immagini in 2D in due posizioni diverse (vedi h) con due chiari picchi nel segnale (b,c,e,f) che indicano la grande galleria e la nuova stanza al di sopra di essa.clip_image028
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Tutte e tre le tecniche hanno confermato lo stesso risultato: la presenza di un vuoto localizzato tra 40 e 50 m dal pavimento della camera della regina. La sua lunghezza e’ piu’ di 30 m e la sua forma e’ simile a quella della grande galleria. Di sicuro questa scoperta mostra come i metodi sviluppati nell’ambito della fisica delle particelle puo’ gettare una luce sulle costruzioni antiche piu’ importanti e di sicuro in futuro richiedera’ una maggiore collaborazione interdisciplinare per cercare di capire meglio la grande piramide e di come essa fu costruita. Questo annuncio di sicuro ha gettato scompiglio tra gli egittologi di mezzo mondo facendo riemergere tante domande da tempo senza risposte. Questa stanza segreta contiene il tesoro che da millenni ci cerca nella piramide? Nasconde la tomba di Cheope la cui mummia non e’ mai stata trovata? Rivelerà finalmente i misteri della costruzione del più imponente edificio dell’antichità? Mehdi Tayoubi, presidente dell’ Heritage Innovation Preservation del Cairo che ha avviato la ricerca invita tutti ad essere prudenti: "Ci sono molte teorie, alcune pazze e altre ragionevoli, ma è troppo presto per qualunque conclusione." Mark Lehner, direttore dell' Ancient Egypt Research Associates di Boston, ritiene che “dal momento che è impossibile arrivarci, è improbabile che si tratti di una camera di sepoltura: non è il luogo dove gli egizi avrebbero potuto mettere un corpo”. E allora forse, quella cavità ha un significato simbolico, una sorta di luogo di passaggio verso l’oltretomba. Un’altra ipotesi è che si tratti solo una "soluzione ingegneristica" per alleggerire il peso dei blocchi di pietra che si trovano sopra la grande galleria, al fine di prevenire un collasso. A questo punto non ci resta che aspettare. Ai posteri l’ardua sentenza.




domenica 3 settembre 2017

La persistenza P ed S di un numero primo

 

In [1], Sloane ha definito la persistenza moltiplicativa di un numero intero nel modo seguente:

Sia N un qualsiasi numero intero positivo con n-cifre in base 10, N=x1x2x3…xn. Moltiplicare tutte le cifre del numero x1x2x3…xn, ottenendo un nuovo numero N’. Se il processo viene reiterato eventualmente si arriva ad un numero ad una sola cifra. Il numero di passaggi necessari per raggiungere un numero a singola cifra e’ chiamata persistenza del numero N. Qui un esempio:

679, 378, 168, 48, 32, 6

In questo caso la persistenza del numero N=679 e’ 5.

Naturalmente questo concetto puo’ essere esteso a qualsiasi base. In [1], Sloane ha congetturato che, in base 10, c’e’ un numero c tale che nessun numero intero positivo ha persistenza piu’ grande di c. Questa congettura grazie ad una ricerca fatta al computer e’ stata provata essere vera per tutti I numeri piu’ piccoli di 10233. La persistenza piu’ alta trovata al momento e’ 11.

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Osserviamo che la persistenza di un qualsiasi numero con cifra zero sara’ sempre uguale ad 1 essendo il prodotto uguale a zero. Un umero intero con delle cifre uguali a 1 ha la stessa persistemza del numero intero ottenuto rimuovendo le cifre 1.

911311111 per esempio ha persistenza pari a 3 in quanto abbiamo 27, 14, 4. Lo stesso risultato e’ ottenuto se partiamo col numero 93. Provare per credere.

I numeri naturali ottenuti con la permutazione delle stesse cifre hanno la stessa persistenza (3474, 3744, 4347…ecc). Ancora un’altra proprieta’. Due numeri hanno la stessa persistenza se essi hanno gli stessi fattori primi delle loro cifre. Consideriamo i numeri 479 e 667.

4 puo’ essere scomposto come 2x2, 7 e’ primo e 9 e’  3x3. Quindi abbiamo due volte 2, due volte 3 e un 7. Passiamo adesso a 667. Abbiamo i seguenti fattori primi per le 3 cifre: 2x3, 2x3 e 7. Abbiamo due volte 2, due volte 3 e un 7. Esattamente come per il numero 479. Questo significa che 479 e 667 hanno la stessa persistenza. Altra osservazione. Un qualsiasi numero con fattori primi delle cifre 2 e 5 che non contiene la cifra zero, avra’ sempre persistenza pari a 2. Esempio:

453 ha come fattori primi delle cifre 2x2, 5, 3 e la sua persistenza   e’ pari a 2 in quanto 453, 60, 0.

Una variante della definizione di Sloane e’ la persistenza k-moltiplicativa [4]; in questo caso si moltiplicano tra di loro non le cifre ma la potenza k-esima delle cifre e si definisce come persistenza k-moltiplicativa il numero di passi necessari per arrivare a 0 o a 1. Evidenze di tipo euristico (prima o poi comparira’ uno 0 o una combinazione di 5 con una cifra pari)  sembrano indicare che tutti i numeri naturali convergano a 0 ad eccezione dei numeri cosiddetti repunit (tutte le cifre uguali a 1) che chiaramente convergeranno sempre ad 1 in un solo passo.  Qui di seguito la tabella che riporta la persistenza k-moltiplicativa dei numeri naturali fino a 20 per valori di k fino a 10 [4].

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Come esempio facciamo vedere che  la persistenza del numero 2 ha una persistenza 2-moltiplicativa pari a 7; infatti:

2, 2^2=4, 4^4=16, 1^2*6^2=36, 3^2*6^2=324, 3^2*2^2*4^2=576, 5^2*7^2*6^2=44100, 4^2*4^2^1^2*0=0

In [2], Hinden ha definito in modo analogo la persistenza additiva di un numero dove, invece della moltiplicazione, e’ stata considerata l’addizione delle cifre del numero considerato, Per esempio, la persistenza additiva del numero N=679 e’:

679, 22, 4

Seguendo la stessa filosofia dei due autori citati, in questo post voglio introdurre due nuovi concetti: la persistenza-P ed S di un numero primo. Sia X un qualsiasi numero primo e supponiamo che X=x1x2x3…xn in base 10.

Se moltiplichiamo insieme le cifre del primo x1x2x3…xn e aggiungiamo il numero originale otteniamo X+x1x2x3…xn che potra’ o no essere un numero primo. Nel caso in cui risulta essere primo allora il processo verra’ reiterato altrimenti no. Il numero di passaggi richiesti ad X per collassare in un numero composto (cioe’ non primo) viene chiamata la persistenza-P del primo X. In altri termini, se indichiamo con f la mappa che proietta un numero primo nell’insieme dei numeri naturali attraverso la somma del numero primo iniziale e il prodotto delle sue cifre, cioe’ f(p)=p+p1p2p3..pn, la persistenza di p  e’ quante volte applichiamo f prima di arrivare ad un numero composto.

Come esempio calcoliamo la persistenza-P dei primi 43 e 23:

43, 55

23, 29, 47, 75

che risulta essere 1 e 3, rispettivamente. Ovviamente la persistenza-P di un numero primo X diminuita di 1 e’ uguale al numero di primi che sono stati generati dal numero originale X. Osserviamo che se la persistenza di un numero primo p qualsiasi dispari e’ essa stessa dispari allora la persistenza-P di tale primo non puo’ essere che 1. Essendo tutti i numeri primi ad eccezione del 2 dei numeri dispari che terminano con le cifre 1,3,7,9 allora se l’ultima cifra del numero primo iniziale p e del prodotto delle sue cifre danno come somma 5 di sicuro la persistenza del numero primo p e’ pari ad 1. Questo accade quando il prodotto delle cifre del numero primo ha come ultima cifra 2,4,6 o 8. Per esempio la persistenza-P del numero primo 41 e’ 1 essendo l’ultima cifra del prodotto delle sue cifre uguale a 4. E la somma delle ultime cifre di 41 e del prodotto delle sue cifre 4*1=4 e’ pari a 5.

Prima di andare avanti, e’ conveniente evidenziare che ci sara’ una classe di numeri primi con persistenza-P infinita cioe’ primi che non collasseranno mai in un numero composto. Diamo un esempio:

61, 67, 109, 109, 109…

In questo caso, poiche’ il prodotto delle cifre del numero primo 109 e’ sempre zero non si raggiungera’ mai un numero composto. In questo post, non considerero’ questa classe di numeri. La tabella seguente riporta i primi con almeno due cifre con persistenza-P minore o uguale a 8:

Dai dati di questa tabella possiamo vedere che, per esempio, il secondo termine del numero primo 29 e’ all’interno della sequenza generata dal numero primo 23. Infatti:

29, 47, 75

23, 29, 47, 75

In questo caso significa che esistono due primi p e p’ con p’>p tali che il prodotto delle cifre di p sommate a p stesso e’ uguale alla differenza tra p’ e p cioe’  f(p)=p’-p.  Essendo p e p’ entrambi dispari questo puo’ accadere solo se f(p) e’ un numero pari, il che e’ vero solo se tra le cifre di p c’e’ almeno una cifra pari.

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E’ possibile modificare, allora la tabella precedente per evitare quei numeri primi che implicitamente sono all’interno delle sequenza di altri primi.

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Questo significa che il primo 163 generera’ una catena che non e’ contenuta all’interno della catena generata da nessun altro primo contenuto nella tabella.

Esistono numeri primi con persistenza-P maggiore di 8? Sono infiniti o limitati superiormente?

Cerchero’ di dare una risposta usando un approccio statistico e non rigorosamente matematico. Indichiamo con L la persistenza-P di un numero primo. Grazie al software Ubasic ho calcolato la frequenza di L per diversi valori di N. Qui di seguito il grafico per due valori di N: 107 e 108.

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La funzione interpolatrice di questa famiglia di curve e’ data da:

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dove a(N) e b(N) sono due funzioni di N.

Per stabilire il loro comportamento ho utilizzato i valori ottenuti interpolando l’istogramma delle frequenze per i differenti valori di N:
 
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Da questi dati si vede che:

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dove k, h e c sono delle costanti. Ricordandoci la definizione di probabilita’ (numero di casi favorevoli su casi totali) che nel caso di funzioni continue si esprime come l’integrale della funzione di densita’, possiamo scrivere che la probabilita’ che  L>=M (dove M indica un qualsiasi intero) per un N fissato e’ data da:

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e da qui e’ possibile ricavare la funzione di conteggio dei numeri primi con persistenza-P uguale a M e minore di N data da  N*P(L=M). E’ come chiedersi lanciando 100 una moneta quante volte mi aspetto che venga fuori testa. Dobbiamo moltiplicare il numero di prove per la probabilita’ che esca testa.

Nel grafico che segue viene riportata questa funzione per 4 diversi valori di L. Per L< 15 e L>=15 c’e’ una rottura nel comportamento della funzione. Per L>=15 il numero di primi e’ molto piccolo (meno di 1) indipendentemente dal valore di N e diventa ancora piu’ piccolo come N che aumenta. Questi dati sperimentali sembrano quindi indicare che L non puo’ prendere qualsisi valore e che molto probabilmente L=14 e’ proprio il valore massimo. Quindi possiamo stabilire la seguente congettura:

Congettura1. Non esiste nessun numero primo con persistenza-P maggiore di un intero M. In altre parole la persistenza P di un numero primo e’ finita.

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Seguendo un’argomentazione simile a quella usata per la persitenza-P, e’ possibile definire la persistenza-S di un primo. Si tratta del numero di passi da effettuare utilizzando questa volta la somma anziche’ il prodotto delle cifre, prima che un numero primo collassi in un numero composto. Per esempio la persistenza-S del numero primo 277 e’:

277, 293, 307, 317, 328

In questo caso la persistenza-S e’ uguale a 4. La sequenza dei numeri primi con almeno due cifre e con persistenza-S uguale a 1, 2, 3, 4… fino a 8 e’ stata stabilita da Carlos Rivera [3]:

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Al momento non e’ stato trovato alcun numero primo con persistenza-S maggiore di 9. Il numero primo piu’ piccolo con tale persistenza e’ stato trovato da Giovanni Resta (56676324799) [3]. Seguendo l’approccio statistico utilizzato prima si arriva ad un risultato analogo a quello della persistenza-P anche per la persistenza-S. (vedere [3] per i dettagli).

Visto che per entrambe la persistenza-P e S si ottiene lo stesso risultato statistico e’ possibile formulare la seguente congettura:

Congettura 2. Il valore massimo della persistenza P ed S e’ la stesso.

Chiudo qui il post invitando chiunque voglia divertirsi con questi concetti a farsi avanti e cercare di dare una risposta ai tanti quesiti ancora aperti. Buon divertimento.

Riferimenti

[1] N. Sloane, “The persistence of a number”, J. Recreational Mathematics, Vol 6, No 2, Spring 1973

[2] Hinden, H. J. "The Additive Persistence of a Number." J. Recr. Math. 7, 134-135, 1974.

[3] C. Rivera, Puzzle 163: P+SOD(P), http://www.primepuzzles.net/puzzles/puzz_163.htm

[4] M. Fiorentini, Numeri persistenti, http://www.bitman.name/math/article/1026

http://www.wikio.it