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venerdì 2 settembre 2022

L’Archeometria nella lotta contro i falsi nei beni culturali

 

Il seguente post e’ stato scritto con la collaborazione di Gilda Russo (Conservation Scientist).

La falsificazione di oggetti archeologici e storico-artistici è molto diffusa e va dalla produzione di falsi di mediocre qualità ai falsi prodotti da specialisti. Sono, infatti, noti casi di opere a lungo ritenute autentiche, esposte nei più importanti musei, che sono state identificate come falsi di varia età in tempi successivi e solo attraverso analisi archeometriche. Numerose sono le indagini archeometriche che possono essere utili nella individuazione di falsi. Dalle tecniche di datazione assoluta (come la termoluminescenza o la datazione al radiocarbonio) alle metodologie di indagini che consentono di identificare la composizione chimica dei materiali originali, di degrado e/o di restauro e quindi realizzare studi di autenticazione, sulle tecnologie di produzione e di datazione indiretta. Ancora in questo contesto sono di notevole importanza le tecniche basate sull’imaging diagnostico (Tomografia Computerizzata, radiografia X, fluorescenza UV, riflettografia IR, etc.) che consentono di avere in maniera non invasiva informazioni sulla distribuzione spaziale dei materiali presenti, non direttamente discriminabili ad occhio nudo, e possono dare indicazioni sulla loro natura chimica, differenziando, grazie alle caratteristiche risposte spettrali, le superfici originali da quelle interessate da integrazioni, ritocchi o trattamenti protettivi.

Statuette, gioielli e piccoli oggetti di uso quotidiano sono i falsi più comuni tra gli oggetti metallici. Oltre al caso di prodotti contraffatti nell'antichità, c'è oggi un fiorente mercato dell'arte che coinvolge entrambi i collezionisti privati più o meno ingenui e musei di varia importanza. Nel giugno 2007, il Progetto AUTHENTICO, finanziato dalla Commissione Europea, ha proposto una ricerca multidisciplinare per affrontare questo problema e fornire una strategia per l'autenticazione del patrimonio culturale mobile, in particolare di manufatti metallici (preziosi e non). Una delle tecniche analitiche proposte per verificare l'autenticità e la tracciabilità dei manufatti metallici è l'XRF portatile.

Sebbene nell'analisi quantitativa XRF di metalli antichi sorgono alcune difficoltà nella valutazione di fattori di correzione per la forma irregolare o effetti di rilievo, o come determinare la composizione del metallo (bulk) al di sotto della patina superficiale, il Portable XRF è ancora la più semplice tecnica non distruttiva che consente di determinare in modo quantitativo la lega con sufficiente precisione, fornendo agli storici dell'arte dati scientifici per ciascun campione. La profondità dell'analisi XRF per i metalli è di solito solo pochi decimi di micron, ma in assenza di rivestimenti metallici (come per esempio oro), e di fenomeni di corrosione o croste, la composizione esterna dovrebbe essere rappresentativa del bulk dell’oggetto in esame.

In questo post come esempio di applicazione delle tecniche archeometriche mostreremo come l’XRF possa aiutare l’archeologo nel dichiarare falso o no un oggetto di cui si ignora la provenienza. A tale scopo sono stati utilizzati tre oggetti: una statua egiziana di metallo realizzata in tempi moderni e comprata in un negozio di souvenir di un noto museo italiano, un oggetto metallico di forma cilindrica con alcuni fori (etichettato in questo post come flauto per la sua forma che ricorda appunto questo strumento musicale) proveniente da una collezione privata e supposto essere di epoca romana e infine una fibula di epoca romana acquistata su ebay da un antiquariato inglese.

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Prima di passare ai risultati delle indagini eseguite vediamo un attimo in cosa consiste l’analisi XRF. La spettroscopia di fluorescenza a raggi X (XRF) è una delle tecniche più utilizzate per l'analisi elementare dei materiali. Gli elementi essenziali della tecnica sono abbastanza semplici: gli elettroni del nucleo degli atomi vengono espulsi dai raggi X primari ad alta energia, l'atomo ionizzato instabile si rilassa quindi allo stato fondamentale e una serie di elettroni saltano negli orbitali inferiori per riempire i posti vacanti, emettendo così fotoni di fluorescenza nella regione dei raggi X, che corrisponde alla struttura quantistica dell’atomo. L'emissione di fluorescenza, riportata spesso anche come raggi X secondari, rappresenta lo spettro "caratteristico" dell'atomo e può essere facilmente utilizzato per identificare e quantificare gli elementi chimici. Le righe di emissione dei raggi X calcolate per tutti gli elementi della tavola periodica sono uno strumento essenziale per l'interpretazione di tutti gli spettri misurati. Sebbene il processo di fluorescenza a raggi X possa essere attivato ionizzando gli atomi con raggi gamma generati da elementi radioattivi (ad esempio 57Co, 109Cd, 125I o 241Am), da elettroni sufficientemente energetici prodotti al microscopio elettronico o da protoni opportunamente accelerati (PIXE), il metodo di gran lunga più diffuso è l’utilizzo di una sonda che genera dei raggi X prodotti da tubi di laboratorio (raggi X primari) azionati ad alta tensione (tipicamente nell'intervallo 20-60 kV). La gamma di elementi che possono essere analizzati in modo efficiente con strumenti da laboratorio dipende dall'energia dei raggi X primari, e quindi le diverse regioni della tavola periodica possono essere sondate utilizzando tubi a raggi X con anodi diversi, come Cu, Mo, Pd, Rh, Ag, Au o W, ognuno dei quali produce una radiazione caratteristica a diversa energia. Ovviamente l'anodo selezionato deve essere quello di un elemento non contenuto nel campione da analizzare, a causa della sovrapposizione con le linee caratteristiche del tubo. Ad esempio, un anodo di W (59,3 keV) può eccitare le righe K di elementi con numeri atomici tra 15–55 e le linee L degli elementi con numeri atomici tra 65–90. Le linee K degli elementi con numero atomico inferiore al Na (Z = 11) sono facilmente assorbiti anche da pochi centimetri d'aria, e da pochi micrometri della massa del campione e quindi non possono essere analizzati di routine.

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Rappresentazione grafica dei livelli di energia degli elettroni dei livelli K, L, M, N in un atomo e transizioni elettroniche Ka, Kb, La, Lb, Lg e Ma corrispondenti alle caratteristiche linee di emissione dei raggi X.

Se il fascio di raggi X incidente è prodotto da un anello di sincrotrone, la tecnica XRF è chiamata SRIXE (emissione di raggi X indotta da radiazione di sincrotrone) e offre alcuni vantaggi rispetto agli stessi esperimenti eseguiti con strumentazione di laboratorio, come una maggiore collimazione del fascio primario, uno sfondo intrinseco molto basso e la possibilità di sintonizzare l'energia della sorgente per eccitare selettivamente specifiche linee di fluorescenza. La configurazione sperimentale per la misurazione degli spettri XRF è composta da una sorgente di raggi X o raggi gamma utilizzata per irradiare il campione, una porta campioni e un sistema per rilevare i raggi X fluorescenti. Un tipico spettro XRF mostra l'intensità dei raggi X di fluorescenza emessi dal campione (comunemente in conteggi/unità di tempo) in funzione dell'energia (in eV), come mostrato di seguito. Dopo un'adeguata calibrazione e correzione per tener conto dell'auto assorbimento della matrice e dell’efficienza del rivelatore, l’integrale delle aree dei picchi di fluorescenza viene convertito in concentrazioni relative o assolute degli elementi chimici analizzati.

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Spettro XRF ad alta energia ottenuto con una sorgente radioattiva di 109Cd di 22,1 keV.

Esistono due tipi principali di sistemi di rivelazione: quelli basati su rivelatori a stato solido e quelli basati su analizzatori multicanale in grado di misurare direttamente l'energia dei raggi X fluorescenti (il sistema è chiamato EDS: energy dispersive spettrometria) e quelli basati su un reticolo di diffrazione, tipicamente un analizzatore a cristallo singolo, che misura l'energia dei raggi X fluorescenti indirettamente diffrangendo le diverse lunghezze d'onda del segnale fluorescente collimato a diversi angoli (il sistema è chiamato WDS: spettrometria dispersiva di lunghezza d'onda). Gli spettrometri WDS sono inferiori in velocità di conteggio ma hanno una risoluzione energetica più elevata (tipicamente 5–10 eV) e quindi possono discriminare in modo più efficiente le linee di fluorescenza sovrapposte, mentre gli spettrometri EDS hanno tassi di conteggio più elevati ma una risoluzione energetica sensibilmente inferiore (tipicamente 150–200 eV). Di conseguenza, i sistemi ED-XRF sono spesso utilizzati per una bassa risoluzione e veloce misurazione, come ad esempio per gli apparecchi portatili utilizzati per le misurazioni sul campo, mentre i sistemi WD-XRF vengono utilizzati in laboratorio fornendo misurazioni ad alta risoluzione (ordine dei ppm per campioni ideali). Gli spettrometri EDS sono spesso associati ai microscopi elettronici (SEM, TEM) per fornire misurazioni chimiche complementari oltre all'imaging e alla diffrazione, mentre diversi spettrometri WDS sono associati principalmente a fasci di elettroni finemente focalizzati nei cosiddetti micro-analizzatori a sonda elettronica (EPMA). Quest'ultimo tipo di strumento, detto anche microsonda elettronica, offre comunemente un buon compromesso analitico tra gli elementi ai limiti di rilevamento (nell'intervallo 1000 ppm), piccole aree tastate e flessibilità di misura. La sensibilità potenzialmente elevata per la maggior parte degli elementi e la relativa facilità d'uso rendono l'XRF molto diffuso in archeometria. Gli strumenti di nuova generazione basati su EDS sono disponibili in commercio sia per misure di laboratorio che portatili. Tuttavia, dovrebbe essere chiaro che per misurazioni XRF eseguite in condizioni non ideali (es. campione sotto vuoto, superficie piana analizzata, attenuazione del campione ecc.), dove la misurazione viene eseguita direttamente su un materiale senza un'adeguata campionatura e preparazione, è difficile ottenere dei risultati quantitativi affidabili, a causa della geometria della superficie, delle possibili patine superficiali e alterazioni, della possibile forma irregolare del campione sondato, geometria di rilevamento non ottimale, ecc. Esistono strumenti a micro-raggio che eseguono scansioni bidimensionali su aree limitate della superficie del campione utilizzando un raggio focalizzato, ottenendo così informazioni chimiche per ogni punto e producendo dati utili per la chimica imaging e mappatura. La tecnica è chiamata scansione XRF. Un'estensione dell'XRF, denominata XRF a riflessione totale (TRXRF), consente la misurazione degli elementi nel campione in concentrazioni minime (ultra-tracce - mg/g nei solidi e ng/g nei liquidi) utilizzando gli angoli di incidenza sulla superficie del campione al di sotto dell'angolo critico, tipicamente < 0,1°. In queste condizioni il raggio primario è totalmente riflesso, penetra nel substrato solo per pochi nm e c'è quindi un'interazione ottimale tra il fascio primario e il campione. L'assorbimento e gli effetti della matrice sul segnale di fluorescenza possono essere in gran parte trascurati e la sensibilità della misurazione è notevolmente migliorata. Il TRXRF è stato utilizzato con successo nell'analisi chimica di pigmenti pittorici, vernici superficiali e miniature di manoscritti.

L’XRF rappresenta una metodologia di analisi non distruttiva e non invasiva quando eseguita tramite spettrometro portatile o da laboratorio su punti del campione direttamente selezionati sulla superficie dell’oggetto da indagare allo scopo di identificare gli elementi chimici costituenti la lega nel caso di reperti metallici, o pigmenti, nel caso di stesure pittoriche. In tal modo è possibile fornire dati utili per la caratterizzazione e lo studio della tecnologia di produzione e, conseguentemente, individuare elementi marcatori che possano fornire importanti informazioni per l’autenticazione e la datazione indiretta del reperto indagato. L’indagine XRF nel caso di reperti costituiti da materiali di natura metallica permette l’analisi qualitativa e, in determinate condizioni anche una determinazione quantitativa, degli elementi chimici in lega e di eventuali elementi presenti sulla superficie introdotti a seguito di patinature artificiali o da naturali processi di corrosione in corso o pregressi.

Lo strumento utilizzato per l’analisi condotta in questo studio è un XRF analyzer della Thermo-Niton modello XL3t 980 Goldd+ (vedi immagine seguente) di un laboratorio privato. Grazie alla sua interfaccia lo strumento è collegabile ad un PC e grazie al software in dotazione è possibile analizzare gli spettri generati.

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Ritorniamo adesso ai metalli. Si tratta di materiali che riflettono la luce, ottimi conduttori di calore e di elettricità, attaccabili dagli acidi (con relativo sviluppo di idrogeno) e dalle basi e in genere hanno delle buone caratteristiche di resistenza meccanica. I metalli danno il nome ai periodi storici come l’età del bronzo, tardo III millennio a.C. e intero II millennio a.C., e quella del ferro, dalla fine del II millennio a tutto il I millennio a.C.

Alla fine del IV millennio a.C. si verificarono importanti progressi nel campo delle tecnologie tra cui:

- la capacità di estrarre i metalli dai minerali in cui essi si trovano chimicamente combinati;

- la comprensione della possibilità di modificarne le caratteristiche con  particolari     aggiunte, ottenendo leghe di tipo diverso;

- lo sviluppo di tecnologie di lavorazione per ottenere particolari forme e prestazioni meccaniche.

I primi elementi metallici ad essere utilizzati dall’uomo preistorico furono:

Au (oro),

Ag (argento),

Cu (rame),

Sn (stagno),

Fe (ferro),

Pb (piombo),

Hg (mercurio),

Spesso As (arsenico) e Ni (Nichel), furono usati consapevolmente al fine di migliorare le caratteristiche del rame. Le prime attività di estrazione dei metalli dai minerali in cui si trovano combinati si riferiscono al rame. Le prime attività di estrazione del rame, infatti, si ebbero probabilmente intorno al 5000-4000 aC. nel nord-est dell’Iran dove si trovavano giacimenti superficiali. Solo più tardi intorno al 3500 a.C. si scoprì che si poteva ottenere un metallo più facilmente colabile in getti, più duro per lavorazione meccanica, aggiungendo stagno al rame durante il processo di fusione. Nacquero così i bronzi allo stagno iniziando così l’età dell’omonimo periodo storico.

Il ferro invece si ipotizza che sia stato prodotto per la prima volta in modo del tutto casuale in Mesopotamia nel 2700 a.C. Questa scoperta fu più accidentale di quella del rame in quanto il ferro si presentava in forma di massa spugnosa ricca di scorie e impurezze. Una differenza importante fra i due metalli è la grande facilità di lavorazione a freddo del rame, mentre il ferro può essere lavorato solo a caldo, poiché una forte deformazione a freddo produce fratture.

Oltre al bronzo e al ferro anche alcune leghe di zinco sono state usate per secoli: l'ottone è senza dubbio quella più antica, e si ritrovano manufatti in tale lega in Palestina a partire dal 1400 a.C. La vera natura metallica di questo elemento comunque non venne riconosciuta dagli antichi. La fabbricazione dell'ottone era nota ai Romani, con una tecnica che prevedeva il riscaldamento di rame e calamina in un crogiolo. Il calore riduceva gli ossidi di zinco della calamina, e lo zinco libero veniva catturato dal rame, formando l'ottone, che veniva poi colato in stampi o forgiato.

La suddivisione dei metalli in nobili e non da’ luogo a quello che si chiama effetto pila. Quando due metalli vengono in contatto, quello meno nobile si corrode (fungendo da anodo) mentre il metallo più nobile rimarrà intatto.

I materiali e l’ambiente in cui si trovano interagiscono continuamente senza che venga raggiunto un effettivo stato di equilibrio. Tale interazione può produrre fenomeni di degrado la cui entità dipende dalla aggressività dell’ambiente e dalla sua variabilità nel tempo. Mantenere costanti le condizioni ambientali all’interfaccia mteriale-ambiente consente di raggiungere uno stato di stabilità in cui gli effetti di danneggiamento vengono minimizzati. Nel caso dei metalli è l’umidità il principale fattore che influenza la velocità dei processi corrosivi in un ambiente naturale non inquinato. I bronzi (rame e stagno), ma anche altre leghe di rame come gli ottoni (rame e zinco), non si ossidano in mancanza di umidità. Altro fattore di degrado è la temperatura (in presenza di fattori chimici di inquinamento come acido solforico e nitrico, solfato ammonico, composti alogenati (cloruri e fluoruri), i cui effetti sono esaltati dalla presenza di energici ossidanti come l’ozono e influenzati dalla piovosità che può apportare sulla superficie esposta depositi salini (es. aerosol) particolarmente pericolosi.

Nel caso di manufatti collocati in interni, come spesso avviene per la statuaria in bronzo, la loro superficie interagisce anch’essa con l’ambiente modificandosi. Perfino i reperti collocati nei musei possono alterarsi soprattutto in conseguenza delle variazioni del microclima in cui sono collocati.

Il prodotto di alterazione della superficie di un manufatto in bronzo esposto per un periodo di tempo relativamente lungo agli agenti chimici presenti nell’ambiente, sia in esterno, che in interno (anche entro una teca in un museo), è genericamente definito patina. Talvolta la patina è il risultato di un processo di finitura intenzionale, generalmente realizzato con finalità artistiche, in quanto possono essere ottenuti effetti cromatici per esaltare ad esempio la drammaticità dei soggetti rappresentati, o anche per nascondere difetti di colata, o saldature di diverse parti di un monumento fuse separatamente. Altre volte però la patina è realizzata per frode (falsi reperti archeologici in cui con essa si cerca di simulare l’effetto del tempo). La composizione chimica delle patine insieme ad altre caratteristiche chimico-fisiche possono però in alcuni casi renderle in grado di esercitare una azione protettiva nei confronti del manufatto, mentre in altri essere un mero prodotto di corrosione che ne deturpa l’aspetto e ne promuove il degrado.

Già nel I secolo d.C. Plinio nella sua “Naturalis Historia” parla di patine nei bronzi definendo Aerugo Nobilis il prodotto di alterazione superficiale di caratteristiche estetiche apprezzabili, mentre Virus Aerugo era il prodotto dannoso. Questa differenza costituisce ancora oggi la linea di confine che guida gli interventi di conservazione sull’opera d’arte in bronzo; nella Carta del Restauro del 1972 si prescrive infatti di “non rimuovere la patina Nobile, stabile chimicamente” anche se soprattutto negli interventi di pulitura dei bronzi collocati in esterni è assai difficile la sua precisa individuazione. Il rame (Cu) puro è inizialmente rosso salmone (nei bronzi il colore diventa più chiaro per aggiunte più o meno grandi di stagno (Sn)). In assenza di anidride carbonica (CO2) e agenti aggressivi nell’atmosfera, l’ossigeno dell’aria ossida il rame a Cu2O (ossido di rame, cuprite) di colore rosso più cupo. La patina che si forma è una miscela di ossido di rame monovalente (Cu2O) con rame metallico. Lo spessore medio di questo strato in media è di 3,5 μm; il colore risultante è il marrone scuro che spesso caratterizza i bronzi conservati in interni (patina nobile).

In presenza di anidride carbonica (CO2) e umidità (H2O), i prodotti che si formano sulle superfici dei bronzi sono di colore verde-azzurro a causa della formazione di due carbonati basici:

· Malachite (CuCO3Cu(OH)2), in strati lisci e compatti di colore verde scuro simile a uno smalto

· Azzurrite (2CuCO3Cu(OH)2), di colore fra l’azzurro e il blu intenso.

Si tratta di patine continue e stabili, di gradevole aspetto, assai apprezzate per il loro carattere non pericoloso per la salute del manufatto.

In ambienti urbani più inquinati contenenti SOx si formano in prevalenza solfati di colore verdastro costituiti da: Brochantite CuSO4.3Cu(OH)2 o Antlerite CuSO4.2Cu(OH)2. Questi composti si trovano associati allo strato di cuprite (Cu2O) sottostante e sono i principali responsabili del colore verde dei monumenti in bronzo esposti all’aperto. In ambienti fortemente acidi questi solfati si trasformano in solfato di rame idrato (CuSO4.5H2O) composto assai solubile e quindi facilmente dilavabile dalle piogge, favorendo in tal modo il progredire dei fenomeni corrosivi.

I composti di rame a base di cloruri sono i più pericolosi a causa dell’elevata solubilità dei cloruri e notevole conducibilità ionica delle soluzioni. I prodotti di corrosione clorurati si trovano nei manufatti rimasti immersi in acqua di mare, interrati in terreni ad alto contenuto salino, contaminati da sostanze organiche in decomposizione o in ambienti vicini al mare in cui il cloruro di sodio (NaCl) è portato dai venti come aerosol. I principali cloruri di sono l’Atacamite CuCl2.3Cu(OH)2 (cristalli ortorombici di colore da smeraldo a verde scuro) e la Paratacamite (Cu,Zn)Cl2.3Cu(OH)2 (cristalli esagonali pulverulenti di colore verde mela).

La paratacamite e la atacamite si ottengono per ossidazione e idratazione della Nantokite, un cloruro rameoso (CuCl), di colore grigio pallido e dall’aspetto ceroso e deliquescente, la cui presenza si riscontra frammista a strati di cuprite (ossido di rame) e di atacamite. La reazione di formazione della paratacamite è accompagnata dalla ossidazione del Cu a cuprite (Cu2O) e a idrossido di rame solubile:

2CuCl + 4Cu + ½ O2 + 3H2O = Cu2(OH)3 Cl + Cu2O

I prodotti di corrosione si manifestano in forma di efflorescenze di aspetto pulverulento che si accompagnano alla distruzione delle patine eventualmente presenti. Il fenomeno, pericolosissimo, è anche chiamato “cancro del bronzo”. Per una efficace conservazione dei bronzi la Nantokite (CuCl) deve essere sempre eliminata. Di seguito un esempio di patina di malachite e cuprite e sulla destra del cosiddetto cancro del bronzo.

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Qui invece un manufatto di rame romano con chiara presenza in superficie di cuprite e malachite.

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Il rapporto tra il volume del rame originario e l’aumento di volume prodotto dai fenomeni di corrosione è espresso dal cosiddetto volume molare relativo (VMR).  Il VMR indica l’accrescimento volumetrico della patina stessa.  Posto 1 il volume iniziale del rame, la cuprite presenta un VMR di 1,67, molto basso (rispetto ad altre patine). Questo significa che la cuprite non altera in modo significativo la superficie dell'oggetto e ne preserva pressoché inalterati i rilievi ed i dettagli.

 

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La corrosione può influenzare significativamente le misure del XRF. Da studi del settore emerge che in generale, è possibile vedere in media un depauperamento del contenuto di rame del 35% per oggetti in lega di stagno corrose. Per oggetti con corrosione in superficie e con alto contenuto di stagno e zinco, il depauperamento medio del rame è di circa il 18%, mentre lo zinco non mostra variazioni significative e lo stagno invece mostra un aumento maggiore del 50%. Per gli oggetti corrosi con alto contenuto di zinco è presente una riduzione dello zinco del 9%. Questo dimostra che la decuprificazione e la dezincificazione sono i processi principali della corrosione. Il depauperamento di rame è stato osservato essere il cambiamento più rilevante dei comuni oggetti di bronzo mentre per gli ottoni si è visto che il processo di corrosione principale è la lisciviazione dello zinco. Questi esperimenti dimostrano chiaramente che bisogna fare molta attenzione alla superficie dell’oggetto che stiamo analizzando con l’XRF per capire il grado di corrosione della sua superficie.

I tre campioni selezionati per l’analisi XRF sia dall’analisi ad occhio nudo che da osservazione con stereo microscopio appaiano essere tutti formati principalmente da Cu e quindi appartenenti alla classe dei bronzi. Inoltre, la loro superficie non sembra presentare alterazioni da corrosione.

Sebbene alcuni esempi isolati di leghe di rame preistoriche contengano diversi per cento di zinco, in particolare da Cipro, solo nel primo millennio aC iniziò la produzione deliberata di ottone, probabilmente in Asia Minore. Dal VII secolo aC i Greci iniziarono a parlare di ottone, ma sempre come un metallo costoso ed esotico non prodotto in Grecia, e questo è confermato dall'assenza di zinco nella grande maggioranza dei bronzi greci. Allo stesso modo, dei tanti bronzi etruschi analizzati, solo due rispettivamente del V e III secolo a.C sono risultati essere di ottone con circa l'11% di zinco e meno del 3% di stagno. Nel I secolo aC i romani iniziarono ad utilizzare il processo di cementazione per la produzione dell’ottone. Dapprima molto probabilmente venne utilizzato per la monetazione, ma poi diventò rapidamente popolare in altri campi, in particolare nella lavorazione dei metalli decorativi dove andò a sostituire ampiamente il bronzo. Durante il II e il III secolo d.C. il contenuto di zinco delle monete diminuì, e gli ottoni con un alto contenuto di zinco non vennero più utilizzati, sebbene l'ottone continuasse ad essere popolare rappresentando circa il 30% delle leghe di rame romane. Dal III secolo in poi una lega di rame con una piccola percentuale di piombo, zinco e stagno (oggi chiamata "bronzo duro al piombo" o “gun metal” in lingua inglese) iniziò ad essere utilizzata regolarmente e da allora è rimasto tale. Le origini di entrambi i termini “Ottone” e “Bronzo” non sono note, ma sembra che in epoca medievale tutte le leghe di rame venissero chiamate bronzi, e solo dal Rinascimento il termine bronzo fu usato in Italia per denotare leghe di rame legate con stagno. Tuttavia, i termini sono stati utilizzati indiscriminatamente in Inghilterra fino al XIX secolo. Ai fini di questo post, per ottone si intende una lega di rame a cui è stato aggiunto deliberatamente dello zinco mentre per bronzo una lega di rame in cui è stato introdotto dello stagno.

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Considerando i valori di Cu, Zn e Sn dei tre campioni sotto analisi possiamo subito vedere che la statua egizia falsa non è di bronzo ma di ottone su cui poi sono state create le tipiche patine verdi in modo artificiale. Per l’oggetto invece riportato come ‘flauto’ la sua composizione lo colloca nella regione individuata come bronzo duro visto il suo contenuto medio di Zn e praticamente la quasi assenza di Sn. La fibula acquistata su ebay invece risulta essere un oggetto essenzialmente di rame visto il suo basso contenuto di Zn e di Sn.

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Per poter effettuare un confronto tra gli oggetti in analisi e oggetti simili autentici, si è fatto ricorso ad articoli pubblicati su riviste specializzate dove l’XRF è stata utilizzato per oggetti metallici che vanno dalla preistoria fino al periodo romano (circa 300 dopo Cristo). In giallo sono stati evidenziati i 3 oggetti sotto analisi. Oltre alla statua egizia è presente un’altra statua che rappresenta Minerva dichiaratamente falsa. Entrambe mostrano un elevato contenuto di Cu seguito dallo Zn e una piccola quantità di piombo. Nella tabella seguente il periodo e l’età riportata è quella presente nell’articolo da cui sono stati raccolti i dati XRF. La selezione di campioni di leghe di Cu da un'ampia gamma di tipologie di manufatti e da una vasta gamma di reperti archeologici da diverse aree geografiche fornisce un set di dati il più rappresentativo possibile. Ciò consente la caratterizzazione delle leghe di Cu esenti da distorsioni (bias) dovute alla considerazione di un solo sito o di uno solo tipo di manufatto.

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Utilizzando i dati raccolti è possibile vedere come si è evoluta la composizione del bronzo in funzione del periodo storico. In tutte le età precedenti a quella romana il bronzo era ottenuto da una lega di Cu e Sn. In epoca romana si aggiunse anche del piombo. Al contrario collezionando i dati dell’ottone si può vedere come la sua composizione dall’età del ferro fino a quella romana è rimasto praticamente lo stesso.

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Il piombo (Pb) veniva aggiunto quando la lega metallica doveva essere utilizzata nella fusione di oggetti grandi e complessi come le statue. Nei casi in cui variano contemporaneamente i tre elementi di lega (es. Zn, Sn e Pb), un grafico bidimensionale come gli ultimi due precedenti non va più bene. Questo problema viene superato in una certa misura mediante l'uso di diagrammi ternari. Questi sono in grado di indicare contemporaneamente la differenza tra ottoni e bronzi e tra leghe piombate e senza piombo.

La ricerca effettuata sulle leghe romane di Cu ha permesso di svelare le relazioni tra scelta della lega e i vincoli tecnologici. Questi possono essere visti chiaramente nei livelli di Pb presente nelle leghe romane. A differenza di Zn e Sn, il Pb non è presente nelle leghe di Cu in soluzione solida. Esso forma delle goccioline discrete in tutto il metallo. Questo rende le leghe di piombo più soggette a rompersi quando martellate e forgiate, e così le lamiere e i fili quasi mai hanno più dell'1% di Pb. Il piombo, tuttavia, abbassa il punto di fusione del Cu e produce un fuso di una lega più fluido. Questo lo rende un'utile aggiunta alle leghe che devono essere utilizzati nella fabbricazione di grandi o complesse fusioni, come le statue.

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Diversi ricercatori hanno dimostrato che esistevano dei collegamenti complessi tra la forma dei manufatti e le leghe utilizzate per la loro fabbricazione (es. Bayley & Macellaio, 1981; Craddock, 1975, 1996). Uno degli esempi più chiari di questo fenomeno in epoca romana è il gran numero di vasi di bronzo prodotti in Campania e altrove (den Boesterd, 1956). L’analisi di un gran numero di questi vasi ha dimostrato che la maggior parte di loro erano di bronzo piombato. Anche l’archeologo inglese Craddock ha dimostrato che un'ampia gamma di manufatti in leghe di Cu (ad es. statue e strumenti musicali) prodotti nel periodo tardo repubblicano e primo imperiale nell'area mediterranea è stata realizzata con una lega simile al bronzo piombato.

Per quanto riguarda il cambiamento cronologico nelle leghe di Cu di epoca romana sono stati effettuati pochi studi e i risultati non sono molto accurati. Nel grafico di seguito viene riportato il tipo di leghe utilizzate per gli oggetti metallici provenienti da scavi in Gran Bretagna lungo il periodo romano (i secoli sono quelli dopo Cristo). Molti dei tipi di leghe riportate sono presenti a livelli relativamente bassi per tutto il periodo romano (es. ottone piombato e piombo ramato) o mostrano variazioni relativamente piccole nel tempo (es. bronzo duro e bronzo). I cambiamenti significativi nei tipi di lega sono quelli legati al calo dell’ottone senza piombo e il crescente uso del bronzo piombato e bronzo duro al piombo. Nel I secolo d.C. l’ottone rappresentava il 37% delle leghe utilizzate mentre il bronzo al piombo e il bronzo duro al piombo insieme rappresentavano il 27%. Nel IV secolo d.C., l'ottone passa al 4% mentre il bronzo al piombo e il bronzo duro al piombo aumentano al 64%. I cambiamenti cronologici nelle composizioni delle leghe romane analizzate devono, tuttavia, essere considerate con cautela trattandosi di campioni da diversi siti in momenti diversi; i cambiamenti delle leghe analizzate potrebbe riflettere piuttosto i cambiamenti nella documentazione archeologica rispetto ai cambiamenti nell'antica metallurgia del Cu. Inoltre, i diversi tipi di manufatti prodotti e i metodi utilizzati nella fabbricazione potrebbe essere cambiato nel tempo.

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Ritorniamo adesso ai nostri tre oggetti. Come anticipato, la statua è chiaramente un falso e quindi ci aspettiamo che il suo spettro sia significativamente diverso dagli oggetti (in particolare proprio una statua) veri. Nel database creato con i dati presi da altri autori e pubblicati su riviste scientifiche specialistiche, abbiamo una statua di Minerva autentica, una statua di Minerva falsa e una statua romana di cui non è riportata l’età e il personaggio che essa rappresenta. Riportando i dati su di un grafico ternario Sn-Zn-Pb si può vedere immediatamente come le 2 statue false si posizionano nel vertice in basso a destra del triangolo che indica un alto contenuto di Zn, un bassissimo contenuto di Sn e un basso contenuto di Pb (in pratica si tratta di ottone). Al contrario le due statue vere si posizionano a metà del lato destro del triangolo che indica un basso contenuto di Zn e un alto contenuto di Pb e Sn (quindi oggetti di bronzo piombato). Questo è un ottimo esempio di come un’analisi XRF possa aiutarci nella individuazione di un falso.

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Passiamo adesso al secondo oggetto e cioè la fibula comprata all’asta su ebay dall’Inghilterra. Qui di seguito un esempio di fibule ad arco. Oltre a questa classe esistevano le fibule ad anello e le fibule a piastre.

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Una fibula altro non è che un'antica spilla. Tecnicamente il termine latino fibulae si riferisce alle spille romane; tuttavia, il termine è ampiamente utilizzato per riferirsi a spille dell'intero mondo antico e altomedievale. Le fibule erano usate per allacciare i vestiti, i mantelli militari o, in alcuni casi, semplicemente come oggetti decorativi. Furono usate secoli prima della fondazione di Roma e per secoli dopo la sua caduta da greci, persiani, frigi, celti, tedeschi, slavi e molti altri popoli oltre ai romani. Erano usate sia dai soldati che dai civili; da uomini, donne e bambini. Erano usate su abiti, camicie e abiti, nonché sui mantelli. Non venivano utilizzate invece sulla toga, che era semplicemente piegata e drappeggiata. Dopo questa breve descrizione delle fibule ritorniamo alla fibula acquistata su ebay e che abbiamo analizzata con uno strumento XRF.

Ripartendo dalla tabella dove abbiamo raccolto tutti i dati XRF riportata precedentemente salta subito all’occhio il suo basso contenuto di Stagno e una percentuale di Zn al di sotto del 5%. Nel grafico Zn-Sn infatti questo oggetto si posiziona nella zona degli oggetti in rame. Ma quanto erano comuni nel passato le fibule di rame? Non molto come si può osservare dalla tabella sottostante che nel periodo tra il 500 aC e il 100 d.C. riporta solo un 6% di fibule in rame contro un 46% di ottone e circa il 48% di bronzo/bronzo duro.

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Anche se i risultati non confermano in modo schiacciante la falsità dell’oggetto sotto studio, c’è qualche lecito sospetto. Come ulteriore approfondimento e’ stata analizzata la percentuale di elementi presenti in tutte le fibule della tabella riportata sopra. La tecnica delle componenti principali è una tecnica statistica utilizzata per ridurre la dimensione del campione andando a trovare le componenti che spiegano la maggior parte della variabilità dei dati. Le nuove variabili (le componenti principali) altro non sono che la sovrapposizione con appositi pesi di tutte le variabili x del nostro database. Per il caso che stiamo studiano possiamo vedere come usando le prime 3 componenti principali riusciamo a spiegare circa l’80% della variabilita’ del nostro campione. Uno dei grossi vantaggi delle componenti principali è quello di poter osservare i dati nel piano o nello spazio cosa impossibile nel caso in cui consideriamo tutti i predittori (le variabili x). Nel piano delle prime due componenti principali notiamo come i dati si dispongono su due cluster che formano una V con vertice in (0,0). La cosa interessante è che il ramo di sinistra della V e’ legato alle fibule create mediamente dopo la nascita di Cristo mentre quelle del ramo di destra prima della venuta di cristo. Sembra indicare un passaggio graduale dal bronzo all’ottone, conosciuto nel passato come oricalco la cui origine viene fatta risalire nel primo secolo prima di Cristo e che tenderà a scomparire nel quarto secolo d.C. (vedi grafico precedente). Guardando i dati come si distribuiscono nel piano della prima e terza componente principale si nota subito un outlier evidenziato con un asterisco verde che guarda caso è proprio la fibula acquistata su ebay. Essa si differenzia dalle rimanenti fibule originarie (clusterizzate intorno all’origine del piano) per l’elevato contenuto di Ag (1%). Questo ci porta a pensare che la fibula sia un falso anche se la confidenza non è molto alta in quanto ci sono delle analisi XRF condotte su delle fibule di epoca romana ritrovate in Kossovo in Polonia che mostrano dei contenuti di Ag molto elevati anche se è anche presente un quantitativo di Sn e Pb considerevole. Cosa che non è vero nel nostro caso. Servirebbero ulteriori analisi, come per esempio quelle delle patine per poter dire con certezza che si tratti di un falso.

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Fibule ritrovate in Kossovo (Polonia) di epoca romana.clip_image059

Adesso è la volta dell’oggetto a cui è stato assegnato l’identificativo “flauto” ma il cui scopo è del tutto sconosciuto (vedi prima immagine qui di seguito). Si tratta di un oggetto proveniente da una collezione privata e secondo l’acquirente proviene da uno scavo nel territorio della Marsica (Abruzzo). Potrebbe trattarsi di una parte di una tibiae o di una tuba, entrambe strumenti musicali utilizzate dai romani (nella seconda immagine qui di seguito parte di tibiae proveniente dal Museo degli strumenti musicali di Roma)

La superficie dell’oggetto non mostra segni di corrosione significativi. La patina sembra essere quella tipica degli oggetti in bronzo. L’oggetto all’interno è cavo e rassomiglia ad un tubo. Il lato sinistro ha un diametro leggermente maggiore del lato destro. A circa un terzo a partire dal lato sinistra si apre un foro con un leggero incavo.

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Lo spettro XRF di questo oggetto sembra indicare un oggetto di bronzo duro (basso contenuto di Sn e presenza di Zn al di sotto della soglia per essere classificato come ottone) con un alto contenuto di Fe.

Dall’analisi di clustering degli elementi dei diversi oggetti riportati nella tabella ad inizio post si vede chiaramente come questo oggetto sia molto simile agli oggetti identificati dalle righe 45, 46 e 47 che riportano i risultati di analisi XRF eseguita si di una statua di bronzo presso il museo di Salonicco la cui origine non è nota. L’statua mostra un alto contenuto di Cu, stagno e in alcuni punti piombo confermando che si tratta di bronzo. Comunque, va notato che su molti punti della superficie della stata risulta un’elevata concentrazione di Fe (da 1% fino a circa 30%). Gli autori attribuiscono la presenza di tale elemento alla contaminazione di un oggetto di ferro posto nello stesso ambiente di sepoltura. In alcuni punti la statua mostra un basso contenuto di rame (intorno al 50%) a causa dei processi di corrosione. Diversamente da questa statua l’oggetto analizzato risultato simile ad essa per il basso contenuto di Cu e l’alto contenuto di Fe mostra la presenza di zinco e un basso contenuto di stagno che lo fa rientrare nella categoria del bronzo duro. Elementi come il ferro (Fe) possono essere il risultato del processo di fusione, di aggiunte intenzionali, parte di uno strato di corrosione o contaminazione da oggetti di ferro durante la sepoltura.

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Come già riportato per la statua del museo di Salonicco, il basso contenuto di Cu potrebbe essere dovuto a qualche fenomeno di corrosione anche se la superficie pur presentando il tipico valore verde della malachite non sembra mostrare un notevole degrado come invece si può notare per la tuba del museo romano di strumenti musicali. Per poter definitivamente stabilire l’autenticità del pezzo servirebbe uno studio delle patine presenti sull’oggetto con analisi tipo FTIR e u-Raman.

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sabato 3 ottobre 2020

Quando un diverso numero di neutroni può aiutare l’archeologo

 Nell’ultimo decennio, in tutti i campi delle Scienze Ambientali e dei Beni Culturali, è emersa una forte esigenza di metodologie innovative da affiancare a quelle convenzionali per una migliore comprensione dei processi ambientali e antropogenici. Per questo motivo le metodologie isotopiche hanno assunto un ruolo sempre più importante in un numero crescente di procedure di analisi e di controllo sia in campo industriale, che ambientale, biomedico e archeologico. Si tratta, in generale, di metodi di misura sviluppati nella ricerca di base in fisica e trasferiti ai laboratori in vari altri campi. Tra questi metodi la spettrometria di massa di isotopi stabili degli elementi più abbondanti in natura, costituisce un potente mezzo di indagine, largamente utilizzato nelle scienze applicate alla diagnostica dei beni culturali ed ambientali. L’ambiente è, per sua natura, in continua evoluzione ma l’uomo ne ha accelerato il passo in una direzione incognita. Ecco, allora, che la determinazione della composizione isotopica di elementi quali il Carbonio, l’Ossigeno e l’Azoto nell’atmosfera, nel suolo, nella vegetazione e nelle acque, si è dimostrata un indicatore molto sensibile delle piccole variazioni (spesso dovute proprio ad attività antropiche) dei flussi di questi elementi e per studiare meccanismi ancora poco chiari. Gli isotopi sono atomi di uno stesso elemento che posseggono un diverso numero di neutroni. Gli isotopi vengono definiti stabili quando il numero di protoni e neutroni non cambia nel tempo. Poiché i neutroni all’interno dell’atomo sono particelle elettricamente neutre, due isotopi dello stesso elemento mantengono la stessa carica ma hanno un diverso numero di massa (A). Il numero di massa è espresso dalla somma del numero di neutroni (N) e di protoni (Z, particelle cariche positivamente) ed è riportato come apice a sinistra del simbolo chimico. Qui di seguito un diagramma che mostra come la stabilità nucleare è più un’eccezione che una regola con solo 270 nuclidi stabili su 2500 conosciuti.



A causa della diversa massa, gli isotopi di un elemento hanno forze di legame diverse e di conseguenza possono avere comportamenti chimico-fisici diversi. La composizione in isotopi stabili di elementi di bassa massa atomica è riportata in termini di valori relativi ad uno standard di composizione isotopica nota. Questa notazione, il “delta per mille” (δ ‰) è calcolata secondo l’equazione:

dove R indica il rapporto tra l’isotopo più pesante e quello più leggero. In pratica, il valore δ esprime di quante parti per mille il rapporto isotopico si discosta dallo stesso rapporto in uno standard di riferimento con composizione isotopica nota. Il motivo dell’utilizzo di tale notazione risiede nel fatto che la differenza tra due isotopi di uno stesso elemento è molto piccola per cui utilizzare il rapporto R da solo implicherebbe il maneggiamento di numeri con molte cifre decimali e complicherebbe i calcoli. L’uso della notazione δ espande piccole differenze e le rende più facilmente visibili. Inoltre, l’uso di un rapporto di rapporti permette di confrontare elementi diversi che sarebbero molto più difficili da confrontare in valori assoluti.

Un valore δ positivo indica che il rapporto isotopico del campione considerato è più alto di quello dello standard, cioè che il campione è arricchito nell’isotopo pesante rispetto allo standard. Viceversa, un valore δ negativo indica che il rapporto isotopico del campione considerato è più basso di quello dello standard, e quindi che il campione è impoverito nell’isotopo pesante rispetto allo standard. Diversi termini vengono comunemente usati per comparare i valori δ: arricchito/impoverito in isotopi pesanti; più positivo/più negativo; maggiore/minore; più pesante/più leggero.


Esistono diversi standard internazionali di riferimento per vari isotopi (vedi tabella di seguito). Per quanto riguarda gli isotopi stabili dell’acqua (2H e 18O) per esempio, comunemente, lo standard di riferimento è rappresentato dallo VSMOW (Vienna Standard Mean Ocean Water), rimpiazzato nel 2006 dallo VSMOW2 che, per definizione, ha un valore di δ di 0‰.


Le proporzioni relative dei diversi isotopi non sono sempre le stesse a causa del cosiddetto frazionamento isotopico. Questo fenomeno è dovuto a differenze nella velocità di reazione degli isotopi leggeri e pesanti dello stesso elemento durante le reazioni termodinamiche. Nell’acqua, per esempio, il frazionamento isotopico avviene principalmente durante i cambiamenti di fase (evaporazione, condensazione, fusione). In questi casi, la velocità di diffusione varia a seconda della forza dei legami chimici tra gli isotopi pesanti e leggeri. I legami molecolari tra gli isotopi leggeri vengono spezzati più facilmente di quelli tra isotopi pesanti. La forma isotopica pesante dell’acqua (cioè quella contenente 2H e 18O, ossia 2H18O) richiede più energia per spezzare i legami chimici rispetto all’acqua che contiene isotopi più leggeri (1H16O), e di conseguenza la reazione avviene più lentamente. Nel caso del cambiamento di stato da liquido a gassoso, per esempio, le molecole di acqua che contengono 16O evaporano più facilmente rispetto a quelle che contengono 18O, a causa della differenza di massa tra i due isotopi e della facilità di rottura dei legami idrogeno che mantengono l’acqua in forma liquida. Inoltre, maggiore è la differenza di massa tra due isotopi, maggiore è il frazionamento isotopico. Esistono due meccanismi principali che determinano il frazionamento isotopico: frazionamento all’equilibrio e frazionamento non all’equilibrio (frazionamento cinetico). Il primo comporta la redistribuzione degli isotopi di un elemento tra vari composti, cosicché la velocità di reazione diretta e inversa di un certo isotopo è identica. Questo implica che il rapporto tra isotopi differenti in ogni composto o in ogni fase della reazione per una certa temperatura rimanga costante ma non implica necessariamente che la loro concentrazione sia uguale. Durante le reazioni all’equilibrio, l’isotopo più pesante si accumula nel composto col maggiore stato di ossidazione o nel composto più “denso”. Un tipico esempio di processo all’equilibrio è rappresentato dalla condensazione del vapore acqueo. In tale processo, gli isotopi pesanti della molecola d’acqua (18O and 2H) si concentrano nella fase liquida (che così viene definita arricchita in isotopi pesanti) mentre gli isotopi leggeri (16O and 1H) rimangono concentrati nella fase gassosa. In generale, il frazionamento è fortemente dipendente dalla temperatura: più alta è la temperatura, minore è la differenza tra la composizione isotopica di due specie all’equilibrio. Il frazionamento non all’equilibrio è tipico di sistemi aperti, dove il prodotto viene continuamente allontanato dal sistema, o nelle reazioni irreversibili. In questi casi, non è possibile raggiungere l’equilibrio fra reagenti e prodotti. La velocità di reazione è dipendente dal rapporto delle masse isotopiche e dalle loro energie vibrazionali. Come nel caso del frazionamento all’equilibrio, i legami tra gli isotopi leggeri vengono spezzati più facilmente di quelli tra isotopi pesanti. Questo comporta un accumulo di isotopi pesanti nel reagente mentre nelle reazioni reversibili all’equilibrio i prodotti della reazione possono essere isotopicamente sia più leggeri che più pesanti dei reagenti originari. Un tipico esempio di frazionamento isotopico cinetico è rappresentato dal processo di evaporazione dell’acqua dalla superficie degli oceani, in cui il vapore acqueo prodotto dall’evaporazione viene continuamente rimosso dai processi di turbolenza dell’atmosfera cosicché la reazione non può mai raggiungere l’equilibrio. Il vapore prodotto dalla reazione di evaporazione risulta impoverito in isotopi pesanti con una deviazione del rapporto di frazionamento rispetto a quello che avverrebbe all’equilibrio.

Gli isotopi stabili vengono utilizzati per risolvere diversi problemi. Una delle applicazioni più comuni è la geotermometria, cioè la misura di temperature che si sviluppano nel corso dei fenomeni geologici. Il frazionamento isotopico è inversamente proporzionale alla temperatura: il frazionamento è grande alle basse temperature e piccolo alle alte temperature. La geotermometria è inoltre un’analisi geochimica che consente di determinare, indirettamente e attraverso la composizione dei diversi minerali costituenti una roccia, i valori della temperatura alla quale la roccia si è andata formando. Questo metodo si applica se esistono condizioni di equilibrio termodinamico tra i componenti.

Un’altra applicazione degli isotopi stabili è l’identificazione di processi. Le piante, per esempio, che per fotosintesi producono catene di idrocarburi C4 (cioè idrocarburi con 4 atomi di Carbonio) frazionano il carbonio diversamente dalle piante che producono catene di idrocarburi C3. Questo frazionamento è mantenuto nella catena alimentare e quindi la misura di isotopi stabili nelle ossa di mammiferi fossili ci da’ informazioni sulla loro dieta. Le tecniche isotopiche giocano un ruolo importante anche nelle scienze archeologiche, dove sono state utilizzate per stabilire le diete del passato e la migrazione dei popoli, la provenienza di marmi usati in architettura e scultura, la provenienza di antiche ceramiche e metalli, la ricostruzione di paleoclimi e paleoambienti e l’utilizzo di oggetti di terracotta grazie all’analisi dei residui di cibo presenti sulla loro superficie.

Tra gli isotopi usati dagli archeologi quelli più importanti sono:

  • carbonio: 13C (o C-13) e 12C (o C-12). Il rapporto tra i due (13C/12C) viene indicato come δ13C
  • azoto: 15N (o N-15) e 14N (o N-14). Di nuovo il rapporto (15N/14N) è dato da δ15N.
  • ossigeno: 18O (O-18) e 16O (O-16), con il loro rapporto (18O/16O) indicato come δ18O.
  • stronzio: 87Sr (Sr-87) e 86Sr (Sr-86). Il rapporto è dato da 87Sr/86Sr.

Per il carbonio le due principali riserve in natura sono rappresentate dal carbonio organico e dai carbonati. Queste sono caratterizzate da differenti impronte isotopiche a causa dei diversi processi in cui sono coinvolte.

Il carbonio inorganico (carbonatico) interviene negli equilibri di scambio tra anidride carbonica atmosferica - ione bicarbonato disciolto - carbonato solido; queste reazioni di scambio portano ad un arricchimento dell’isotopo pesante nella forma carbonatica solida (δ13C pari a 0‰). Viceversa, le reazioni cinetiche in cui risulta principalmente coinvolto il carbonio organico, attraverso i processi fotosintetici, determinano una concentrazione dell’isotopo più leggero nel materiale organico prodotto (δ13C pari a circa −25‰). Il frazionamento del carbonio organico è principalmente legato al tipo di pianta che opera la fotosintesi. Le piante terrestri, classificate come C3 e C4, seguono due vie metaboliche differenti. Entrambe generano sostanza organica caratterizzata da valori di δ13C più negativi rispetto a quello dell’anidride carbonica (~-7‰), in quanto durante la fotosintesi la sostanza organica prodotta accumula l’isotopo leggero rispetto a quello pesante. Le piante C3, caratteristiche dei climi temperati, producono un composto a tre atomi di carbonio (ciclo di Calvin) con un valore medio di δ13C pari a -26,5‰. Le piante C4 generano un composto a 4 atomi di carbonio (ciclo di Hatch-Slack) caratterizzato da un valore di δ13C intorno a -12,5‰. Partendo da questo tipo di conoscenze il frazionamento del carbonio di origine organica è stato indagato per molteplici applicazioni, tra le quali lo studio delle reti trofiche. La composizione chimica dei tessuti animali è connessa alle risorse alimentari che essi assimilano e pertanto i tessuti riflettono la composizione isotopica della dieta. L’arricchimento tra i produttori e i consumatori primari (erbivori) è stato stimato intorno al +5‰ mentre andando ai livelli successivi della catena trofica l’arricchimento risulta meno marcato (+1‰). Il valore isotopico rilevato nei tessuti di un organismo, quindi, può essere utilizzato come indicatore della sua posizione trofica, ma dato che la variazione dei valori di δ13C associata ai passaggi trofici risulta relativamente modesta, questo dato è usato principalmente per rintracciare la fonte primaria di carbonio assunta. Attraverso l’analisi degli isotopi stabili del carbonio è possibile anche differenziare le reti trofiche terrestri da quelle marine. Il carbonio “marino” deriva infatti dal carbonio inorganico disciolto (bicarbonato disciolto) caratterizzato da un valore isotopico pari a circa 0‰, e quindi più alto di quello dell’anidride carbonica atmosferica, che è pari a circa -7‰. Tale differenza è mantenuta ad ogni livello trofico sia in ambiente marino che terrestre.

Passiamo adesso all’azoto. Esso è il principale elemento dell’atmosfera terrestre (circa il 78%), ma nonostante ciò la maggior parte degli organismi non sono in grado di usarlo in forma gassosa. L’azoto atmosferico deve essere quindi convertito in forme utilizzabili e ciò avviene naturalmente attraverso una serie di reazioni chimiche mediate dai microorganismi azotofissatori che vivono sia nel suolo che nelle acque dolci e salate (Clostridium, Azotobacter, Rhizobium leguminosarum, attinomiceti), e che producono un frazionamento isotopico dell’azoto differenziando i valori di δ15N. La prima fase della fissazione è quella che vede la formazione di azoto ammonico (δ15N pari a circa 1‰) da quello molecolare atmosferico.


Le reazioni che generano ulteriori trasformazioni dell’azoto nel suolo e nelle acque sono la mineralizzazione, la volatilizzazione, la nitrificazione e la denitrificazione, anch’esse per la maggior parte mediate da microrganismi. Ad esempio, la volatilizzazione è legata alla perdita di ammoniaca dal suolo all’atmosfera. Tale processo è caratterizzato da un elevato frazionamento che produce ammoniaca impoverita in δ15N, lasciando lo ione ammonio residuo presente nel suolo arricchito dell’isotopo pesante. L’intero processo di trasformazione dell’azoto in nitrato coinvolge diversi passaggi di reazione, ognuno dei quali produce un arricchimento nel substrato azotato residuo che può arrivare al 30‰. La denitrificazione (cioè l’utilizzo del nitrato al posto dell’ossigeno quale substrato per l’ossidazione della materia organica) è un processo mediato da batteri, in grado di provocare un elevato frazionamento isotopico del nitrato residuo. In relazione anche alle condizioni ambientali, l’attività batterica discrimina le forme isotopiche più “leggere”, determinando nel nitrato residuo un arricchimento dell’isotopo pesante rispetto all’azoto molecolare prodotto. Nella figura sottostante vengono riportati i principali processi che interessano il ciclo dell’azoto in ambiente marino.


La conoscenza dell’intero ciclo dell’azoto in termini di distribuzione isotopica, in associazione a quello del carbonio, è utile sia per comprendere le caratteristiche della catena trofica che le relazioni tra alcuni tipi di pressioni antropiche sull’ambiente e gli impatti sugli ecosistemi.

Ora passiamo all’ossigeno. Durante i fenomeni di evaporazione e precipitazione si verifica il frazionamento isotopico dell’ossigeno (e dell’idrogeno). L’entità del frazionamento dipende dalla temperatura e da altri fattori climatici e geografici come ad esempio latitudine, altitudine, stagionalità e continentalità. L’acqua tende ad evaporare con una reazione di equilibrio regolata dalla temperatura. La fase vapore è caratterizzata da un arricchimento in 16O (δ18O < 0) e in 1H, essendo le molecole di 1H16O più leggere e quindi più favorite all’evaporazione. La fase liquida sarà viceversa più ricca in 2H16O, 1H18O e 2H18O, molecole più pesanti (δ18O e δ2H >0).

Le precipitazioni si impoveriscono dell’isotopo pesante all’aumentare della latitudine e dell’altitudine. In una stessa regione, le precipitazioni relative ai mesi freddi sono caratterizzate da composizioni isotopiche negative mentre durante i mesi caldi risultano arricchite in isotopi pesanti (δ più positivi per l’effetto stagionalità). Le precipitazioni risultano infine più arricchite dell’isotopo pesante spostandosi da regioni costiere all’entroterra. Anche nel ciclo vegetativo delle piante, i processi di adsorbimento dell’acqua e di evapotraspirazione determinano un arricchimento degli isotopi pesanti (2H e 18O), in dipendenza dalla specie vegetale e dall’acqua “isotopicamente” diversa che le varie specie vegetali hanno a disposizione per la fotosintesi.

Il quarto elemento anch’esso molto utilizzato dagli archeologi e’ lo stronzio. Esso ha quattro isotopi naturali: 84Sr, 86Sr, 87Sr e 88Sr tutti quanti stabili. Le abbondanze isotopiche sono variabili a causa della formazione del radiogenico 87Sr attraverso il decadimento del 87Rb. Per questo motivo l’esatta composizione isotopica delle rocce dipende dal rapporto iniziale di Rb/Sr durante la fase di cristallizzazione, dall’età della roccia e da quanto 87Sr si è formato, dall’interazione con fluidi o attività metamorfica. Questa quantità rimane inalterata per tutta la vita della roccia, anche quando questa si sgretola andando a formare il terreno dove crescono piante che a loro volta entrano nel ciclo di vita degli erbivori.

Ma come facciamo a misurare quantità cosi esigue di elementi isotopici? Quali apparecchiature possono aiutare l’archeologo o il geologo ad effettuare studi sui rapporti isotopici? La risposta è la spettrometria di massa. Si tratta di una tecnica che viene utilizzata per separare molecole cariche, in base alla loro massa, o più correttamente in base al loro rapporto massa/carica grazie ad un campo magnetico. Quindi è una tecnica in grado di distinguere isotopi dello stesso elemento e di calcolarne i rapporti isotopici. Questi ultimi nel caso degli elementi leggeri (H, O, C, N, S) vengono misurati con la tecnica IRMS (isotope ratio mass spectrometry) mediante trasformazione in gas puri. Per altri elementi, quali ad esempio B, Fe e Sr viene utilizzata invece la tecnica ICP-MS (Inductively coupled plasma-mass spectrometry) che prevede la trasformazione del campione da analizzare in atomi e ioni.


Passiamo adesso a qualche esempio di applicazione nell’ambito archeologico. Una delle attività di ricerca in cui si fa largo uso degli isotopi stabili è quella dello studio dei resti fossili umani ed animali per risalire all’ecologia e alla dieta degli individui investigati e ricostruire le condizioni paleoclimatiche e paleoambientali dei loro habitat. A questo scopo vengono misurati i rapporti isotopici di C, N, S, O e Sr nelle frazioni minerali (carbonato idrossiapatite) e organiche (collagene) di ossa e denti. Questi risultano per vari motivi indicatori delle condizioni ambientali in cui gli organismi sono vissuti e possono fornire informazioni di tipo paleoidrologico, paleoclimatico, sulle diete, sulla disponibilità e qualità del cibo, ecc. Alcuni di questi parametri possono essere utilizzati inoltre per identificare la mobilità e le migrazioni degli individui studiati. Lo scheletro dei mammiferi è costituito da una frazione minerale di carbonato idrossiapatite (bioapatite) e da una struttura di sostegno costituita da fibre di collagene nelle quali sono dispersi i minerali. È stato osservato che entrambi i tessuti sono in grado di “registrare” nella loro composizione isotopica le condizioni dell’habitat. Il δ13C del collagene e della bioapatite deriva principalmente dalla dieta, a sua volta dipendente dalla distribuzione e dalla tipologia delle piante. Il δ15N risulta anche correlato direttamente con l’aridità dell’habitat. Il δ34S risulta invece dipendente anche dal contesto geologico, dato che subisce scarsi frazionamenti durante i vari passaggi della catena trofica, per cui può essere utilizzato per ricostruire la mobilità degli individui, esattamente come il 87Sr/86Sr. Il δ18O della porzione fosfatica (δ18Op) e carbonatica (δ18Oc) della bioapatite è dipendente da tutte le fonti di ossigeno (cibo, acqua, O2 respiratorio, ecc.) ma per il bilancio di massa l’acqua ingerita, essendo in maggiore quantità rispetto alle altre componenti, risulta generalmente responsabile della composizione isotopica del minerale dello scheletro. Prima di eseguire le misure con lo spettrometro di massa vengono utilizzate specifiche tecniche di estrazione per separare i tessuti di interesse. Un secondo esempio è quello dell’utilizzo degli isotopi stabili per determinare la provenienza dei marmi utilizzati nel passato come per esempio quelli mostrati qui di seguito.

La tecnica è stata utilizzata per la prima volta nel 1972, quando Harmon e Valerie Craig proposero l’uso degli isotopi stabili del C e del O per distinguere 170 diversi marmi da quattro cave greche.

Grazie a questi studi gli archeologi sono riusciti ad individuare le principali cave presenti nel mediterraneo al tempo dei romani (vedi mappa a di seguito) e nell’antica Grecia (vedi mappa b di seguito). Chiaramente la tecnica degli isotopi stabili è una di alcune tecniche a disposizione dell’archeologo per stabilire la provenienza del marmo. Solo grazie ad un’analisi comparata del campione è possibile stabilire con certezza la sua cava di provenienza.



Tra le tecniche maggiormente usate che affiancano l’analisi degli isotopi stabili c’è l’analisi macro e micro-petrografica e la diffrazione a raggi X. Queste tecniche permettono di stabilire le caratteristiche strutturali del campione, i minerali presenti e la tessitura. Nelle immagini seguenti vengono riportate le caratteristiche petrografiche di alcuni marmi osservati con un microscopio polarizzato.

Un’altra possibile applicazione degli isotopi stabili è quella della determinazione della provenienza di oggetti in metallo. In questo caso si usa l’isotopo del piombo i cui studi risalgono al 1970. La provenienza geologica del metallo può essere determinata grazie al frazionamento a cui viene sottoposto il piombo durante i processi metallurgici, come la fusione, raffinazione, lavorazione, colata o corrosione. Il piombo è presente in piccole quantità nel bronzo, nelle monete e in tanti altri oggetti metallici. In natura esiste come 4 isotopi stabili con numero di massa 204, 206, 207 e 208. Per stabilire la provenienza di un oggetto metallica si usa un diagramma del rapporto 206Pb/204Pb verso il rapporto 207Pb/206Pb o 208Pb/206Pb. In questo modo vengono riportati molti dati di miniere di diverse regioni del mediterraneo. Sul diagramma si formano diversi clusters a seconda delle diverse miniere. Qui di seguito un esempio per oggetti in rame da 170 posti del Sud-Ovest dell’Asia. Ci sono alcune punti che si sovrappongono e rendono difficile individuare in maniera univoca la regione della miniera se non si ricorre ad altri metodi.


Una migliore situazione e’ stata ottenuta per esempio per le miniere e oggetti di rame del periodo carcolitico (2900-1800 aC) della Serbia e della Bulgaria dove la sovrapposizione tra i diversi clusters è molto piccola il che si traduce in una migliore precisione del metodo degli isotopi stabili di Pb.



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