domenica 7 giugno 2015

Big data, big tools analitici e big theory.

 

Nell'era digitale iper-conessa in cui viviamo ci troviamo ogni giorno ad affrontare problemi piu' complessi. Per risolverli non abbiamo ancora delle leggi universali, come per esempio quelle termodinamiche prodotte dalla civilta' tecnologica di un secolo fa, e quindi essi sembrano intrattabili. Basti pensare all'incertezza dei mercati finanziari, la previsione dei cambiamenti climatici mondiali, la previsione di quanta energia servira' nei prossimi anni, quando e dove avverra' il prossimo terremoto catastrofico, la prossima frana, il prossimo attacco terroristico e cosi' via. Gli approcci tradizionali sono spesso di tipo qualitativo e non interdisciplinari e destinati il piu' delle volte all'insuccesso. Per poter arrivare ad una descrizione quantitativa di questi fenomeni usando il rigore scientifico dobbiamo migliorare la nostra comprensione della complessita’ stessa. La complessita' entra in gioco quando ci sono tantissime unita' interagenti in modi diversi tra di loro. Il tutto prende vita e i comportamenti che emergono non sono quelli delle singole unita' che il piu' delle volte hanno dei comprtamenti molto semplici e interagiscono per lo piu' con i primi vicini. Questo sistema interagisce con l'ambiente, adattandosi ad esso ed evolvendo. Esso puo' essere prono ad improvvisi e all'apparenza imprevedibili cambiamenti. Alcune interazioni all'interno del sistema possono rinforzarsi entrando in un loop positivo e andare fuori controllo attraversando il punto di "cliff", il punto di non ritorno oltre il quale il comportamento del sistema cambia radicalmente. La imprevedibilita' e' dovuta alla difficolta' di predire il comportamento del sistema come un tutt'uno a partire dal comportamento delle sue singole parti. Il tutto e' piu' delle sue parti. Una citta' e' piu' dei suoi palazzi e abitanti. Una metropolitana molto piu' di un treno e di alcune stazioni. I nostri corpi piu' di un aggregato di semplici cellule. Questa proprieta' chiamata comportamento emergente e' tipica delle organizzazioni, organismi, mercati finaziari, compagnie, Internet, galassie, il sistema sanitario, il terrorismo, le guerre.

La complessita' del nostro mondo sta aumentando a causa della rivoluzione digitale a cui stiamo assistendo. Se da un lato cio' ci mette in una condizione di sconforto a causa della imprevedibilita' di tali fenomeni dall'altra questa tecnologia presenta anche un opportunita'. La diffusione dei telefonini, le transazioni elettroniche, la digitalizzazione dei dati sanitari, l'internet delle cose solo per citarne alcuni stanno generando una mole incommensurabile di dati. Con lo sviluppo di nuovi strumenti computazionali e nuove tecniche analitiche, i ricercatori hanno iniziato a studiare fenomeni che prima erano fuori dalla nostra portata come per esempio la nascita della cooperazione nella societa', le condizioni che promuovono l'innovazione, come si diffondono le epidemie o come nascono i conflitti e come si espandono.

Nonostante questi successi manca ancora una struttura concettuale e una teoria unificata della complessita'. Al momento nessuno sa di quanti e di che tipo di dati avremo bisogno per chiudere la complessita' in una gabbia teorica. I big data di cui tutti parlano, senza lo sviluppo di strumenti analitici adeguati e senza una big theory non servono a nulla. Oggi big data e' sinonimo di enorme quantita' di dati di vario tipo, non strutturati e dinamici. Ma il vero valore dei big data e' nello sviluppo di nuove tecniche matematiche, algoritmi e processi che rientrano in quello che si chiama machine learning. Oggi sono possibile cose che prima richiedevono una grande fatica. Fino a poco tempo fa per ottenere il trend delle opinioni della societa’ bisognava intervistare alcune migliaia di persone mentre oggi si puo’ ottenere semplicemente interrogando una rete sociale come linkedin. In passato per sapere quante persone in una certa zona facevano moto bisognava intervistare le singole persone mentre adesso e' possibile ottenere rapidamente queste informazioni dagli smartphone grazie a loro accelerometri. Oggi per conoscere gli amici di ognuno di noi non c'e' piu' bisogno di contattare le persone ma basta visitare facebook o sistemi analoghi. Da qui capiamo che i dati da soli non comportano in se una rivoluzione fino a quando non si sviluppano gli strumenti adeguati per analizzarli per fare emergere la conoscenza contenuta in essi. E per nostra fortuna gli strumenti analitici stanno crescendo velocemente molto piu' di quello che stanno facendo i dati. La legge di Moore ormai verificata da diversi anni predice in modo accurato la potenza e la velocita' dei computers. Questa raddoppia ogni 18 mesi. Ma se confrontata con la velocita' con cui progrediscono gli strumenti analitici e' terribilmente lenta. Basti pensare a quanto velocemente i programmatori riescono oggi ad aumentare la velocita' degli algoritmi. Parliamo di un fattore 1000 ogni 18 ore anziche' ogni 18 mesi. Ma questi dati e strumenti analitici da soli possono aiutarci a capire i fenomeni naturali e sociali oppure serve una teoria?

Cosi come Newton osservando la caduta di una mela comincio' a pensare ad una possibile forza che attirasse i corpi verso il centro della terra, e' possibile che noi osservando la straordinaria diversita' e interconnettivita' dei mercati finanziari, delle popolazioni, delle guerre, dello sviluppo del cancro, della diffusione delle infezioni riusciremo a scoprire i principi sottostanti. Un sistema matematico generale per la comprensione della complessita' dovrebbe, in principio, incorporare la dinamica e organizzazione di qualsiasi sistema complesso in modo quantitativo.

E' probabile, come dice lo scienziato del Santa Fe Institute, West, non riusciremo mai ad avere una dettagliata descrizione dei sistemi complessi da permetterci una previsione completa. Nonostante cio' e' possibile che a breve si riuscira' ad avere una descrizione quantitativa' e quindi a fare previsioni solo per alcune caratteristiche particolari di questi sistemi. Potremmo essere interessati a non prevedere esattamente quando ci sara' il prossimo terremoto, ma piuttosto ad assegnare una probabilita' che esso accada nei prossimi anni. La complessita' e' la sintesi di diverse discipline scientifiche e contrariamente a quello che e' successo fino ad ora deve invertire il trend verso la frammentazione e specializzazione, cercando di portare la scienza verso una struttura unificata, olistica per dare una risposta ai grandi quesiti della societa'. Per fare cio' pero' non basta utilizzare l'analisi statistica per trovare delle correlazioni tra variabili: non avendo un modello di riferimento in genere si cercano delle correlazioni, sperando poi che da queste si possano inferire le leggi che regolano la dinamica del sistema in esame.

I big data sono il posto migliore in cui cercare correlazioni a posteriori, ovvero non attese a priori in base ad un modello teorico ma semplicemente identificate nei dati e a cui si cercherà, a posteriori, di dare una spiegazione. Una buona correlazione non implica però, che una variabile abbia una relazione di causalità con l’altra; piuttosto può verificarsi che queste variabili possano avere semplicemente una causa comune. Ad esempio nelle città italiane il numero di chiese e' correlato a quello degli omicidi semplicemente perche' entrambi correlati alla popolazione ma questo non significa che aumentando il numero di chiese aumenti il numero di omicidi, né ovviamente l’inverso! Una correlazione tra variabili quindi non sempre significa che esiste un nesso di causalita'. Spesso si possono trovare correlazioni spurie che non hanno alcun senso: questo accade specialmente quando si hanno tanti dati a disposizione ma pochi strumenti analitici per analizzarli o, peggio ancora, quando si hanno preconcetti e si usano i dati per trovare un tipo di correlazione che ne giustifichi a posteriori l’uso. Per illustrare con un altro esempio il problema delle correlazioni spurie, riportiamo uno tra i tanti presenti sul sito spurious correlations. Nel grafico viene riportato il numero di divorzi nel Maine e il consumo procapite di margarina. La correlazione e’ statisticamente significativa. Piu’ si abbassa il consumo di margarina e meno divorzi si hanno. Questo almeno nel Maine. Questo risultato è palesemente insensato. La presenza di una correlazione statistica non implica la presenza di un nesso di causalità. Si possono fare moltissimi altri esempi di casi in cui, analizzando un gran numero di dati, emergono correlazioni tra fenomeni completamente indipendenti.

Tutto cio’ fa capire che bisogna fare attenzione quando si analizzano grandi basi di dati in quanto gli strumenti statistici da soli non sono in grado di determinare con accuratezza il nesso di causalita’ tra variabili. Possiamo dunque usare le moderne banche dati digitali cercando delle “regolarità” nelle serie temporali di un certo fenomeno, per cercare di prevedere quello che succederà in futuro? La risposta a questa domanda è in genere negativa, e la “fine della teoria” risulta così un miraggio. Perfino i sistemi fisici – che sono più gestibili poiché si conoscono le leggi dinamiche sottostanti rispetto a quelli sociali – sono governati da forze che, benché deterministiche, danno luogo a comportamenti caotici e dunque pongono delle difficoltà intrinseche per effettuare una previsione e per conoscerne il comportamento futuro. Quando non si conoscono le leggi che governano l’evoluzione di un sistema o quando queste sono non deterministiche e universali (cioe’ cambiano nel tempo o sono leggi statistiche) la situazione diventa rapidamente intrattabile. In questi casi e’ possibile sperare di trovare delle correlazioni tra variabili nei dati e usare queste correlazioni, anche senza conoscerne l’origine, per predire il comportamento futuro di un sistema? Anche in questo caso, la risposta e’ generalmente negativa. Già prendendo in considerazione un sistema con molti corpi e governato da leggi deterministiche, l’analisi di serie storiche non aiuta a rilevare una situazione simile a quella attuale già verificatasi nel passato e dunque capace di dare indicazioni per inferire l’evoluzione futura del sistema stesso. È possibile invece usare le banche dati per trovare, a posteriori, delle correlazioni tra variabili che descrivono lo stato di un sistema, ma è necessario aver ben presente che una correlazione a posteriori – dunque non una genuina predizione di una teoria – non implica in genere l’esistenza di un nesso causale. D’altra parte, i big data possono essere uno strumento utile proprio per capire se gli assunti alla base di certi modelli o teorie, anche nel campo delle scienze sociali, sono verificate o meno. Per esempio, le carte di credito e il commercio elettronico dovrebbero permettere di monitorare il consumo in tempo reale e dunque di testare le teorie del comportamento dei consumatori in grande dettaglio. Analogamente, la grande massa di dati elaborati ogni giorno dai mercati finanziari potrebbero permettere di capire per esempio se i mercati “in equilibrio” sono stabili. Piuttosto che cercare delle correlazioni a posteriori per cercare conferma empirica a qualche modello teorico bisogna analizzare i dati senza alcun pregiudizio seguendo l'approccio proprio del data mining. Partendo dalla massa di dati gli algoritmi di machine learning ci dovranno aiutare ad individure possibili modelli che in seguito dovranno essere validati dagli analisti stessi cercando un riscontro nella realta'.

A proposito di Big data e data mining, a Marzo di quest’anno ho partecipato ad un convegno organizzato dal Complexity Institute a Santa Margherita Ligure dal titolo Big Data e Neural networks nel complexity management dove ho fatto un intervento che potete scaricare al link sottostante. Qui un breve riassunto.

Data Mining
Tecniche analitiche altamente complesse per un mondo sempre piu’ ipercomplesso

Presentazione di Felice Russo - Lfoundry Manager

Viviamo in un mondo sempre piu’ interconnesso e digitalizzato. Siamo sommersi dai dati. Ogni minuto il mondo genera dati per 1,7 milioni di miliardi di byte, pari a 360 000 DVD: più di 6 megabyte di dati a testa ogni giorno. Le informazioni, che provengono sia dalle persone sia da macchine di ogni tipo, consistono in dati sul clima, immagini satellitari, fotografie e video digitali, registrazioni di operazioni o segnali GPS, dati scientifici, dati prodotti dalle reti sociali solo per citarne alcuni.

Diventa quindi importante riuscire ad analizzare questo enorme volume di dati con macchine/algoritmi sempre piu’ veloci e con DB (database) contenenti una grande varieta’ di dati. Gli strumenti e le tecniche sono diverse da quelle tradizionali basate sulla statistica classica. Sempre di piu’ si fa uso di tecniche e algoritmi di machine learning, intelligenza artificiale, pattern recognition, matematica, statistica e scienza dell’informazione. Il Data mining e’ all’intersezione di queste varie discipline. Esso cerca di estrarre la conoscenza dalle miniere di dati disponibili. Solo grazie alla conoscenza I dati possono acquistare un “valore”. Oggi le aziende sono ricche di dati ma povere di informazioni/conoscenza. Solo un processo di “scoperta della conoscenza” (KDD Knowledge discovery in database) puo’ trasformare I dati in oro per rimanere nell’ambito delle miniere. La speranza di tutti e’ che un giorno queste tecniche possano essere automatizzate escludendo completamente l’intervento umano. Ma questo rimarra’ un sogno in quanto il data mining essendo un sistema complesso non potra’ essere completamente automatizzato (indecidibilita’ della complessita’ di Kolmogorov di una qualsiasi stringa). Il data mining quindi sara’ sempre un “arte” il cui scopo sara’ quello di trovare i modelli che meglio si adattano agli insiemi dei dati analizzati.

Ma questo non e’ sempre facile. A complicare le cose interviene anche:

1) la complessita’ dei dati da manipolare a causa della loro varieta’ (tipologia di dati) e multidimensionalita’ dei database

2) la complessita’ computazionale degli algoritmi (per esempio con n righe ed m colonne ci sono O[m2m-1] regole di associazione….)

3) la complessita’ dei risultati (non tutti I pattern che emergono sono facilmente interpretabili)

Da dove deriva tutta questa complessita’?

La risposta nella legge di Ashby: "la complessita’ delle tecniche di analisi deve essere uguale o superiore a quella dei dati da analizzare". Piu’ il mondo evolvera’ verso l’interconnessione digitale di tutte le cose (Internet delle cose) piu’ il data mining dovra’ trovare nuove tecniche analitiche per far fronte a tanta ipercomplessita’.

Link

sabato 9 maggio 2015

Robot che si auto-organizzano

 

Tutto e’ iniziato nel 2011 quando i ricercatori in robotica dell'Universita’ di Harvard costruirono per la prima volta i loro 25 robot. Nel 2013 erano diventati 100 e oggi 1000. I ricercatori Michael Rubenstein, Alejandro Cornejo, e il professore Radhika Nagpal  del gruppo Self-Organizing Systems Research descrivono i loro 1000 robot, chiamati swarm robot in quanto imitano uno sciame di insetti, in un articolo apparso sulla rivista Science alcuni mesi fa. In effetti, si tratta di 1024 robot che nell’ambito dei computer e’ l’equivalente del chilo. Per questo motivo questi robot vengono chiamati anche kilobot.

Ogni kilobot e’ un piccolo dispositivo, dal costo irrisorio ($14), che puo’ muoversi grazie a delle gambe vibranti e comunicare con altri robot grazie a dei trasmettitori/ricevitori agli infrarossi.

Lo sciame ha un numero sufficiente di piccoli robot da ridurre l’importanza del singolo. Se qualcuno dei robot si rovina o si rompe non e’ un problema visto l’elevato numero dello sciame. Prevale il comportamento collettivo su quello del singolo. Con cosi tanti robot qualsiasi operazione e' complicata. Un esempio e’ il loro caricamento. Mettere ognuno dei 1024 robot sul loro rispettivo caricabatteria non e’ cosa da poco. Per questo motivo i ricercatori hanno pensato di usare due placche metalliche con i robot inseriti tra loro che si caricano grazie ad una corrente fatta passare attraverso le placche. Allo stesso modo e’ possibile programmare i robot investendoli con dei raggi infrarossi.

Dati i presupposti di elevato numero di robot e infrastruttura di supporto/gestione, è possibile realizzare uno sciame ispirandosi a quanto accade in natura con gli sciami d'insetti, con gli stormi di uccelli o con i banchi di pesci. In tutti questi sistemi biologici ci sono una serie di regole molto semplici che permettono allo sciame/stormo/banco di organizzarsi e controllarsi pur non avendo un capo, un direttore di orchestra. In un banco di pesci, ad esempio, ci sono una serie di regole sul posizionamento reciproco tra i singoli componenti del banco.

Uno dei modelli piu’ utilizzati e’ il cosiddetto modello delle 3 zone che formalizza tramite 3 semplici regole il comportamento del singolo animale all’interno del gruppo.

· Repulsione: quando e’ troppo vicino agli altri individui, l’insetto tende a spostarsi da quest’area.

· Allineamento: gli individui cercano di identificare la possibile direzione del gruppo e si allineano ad essa

· Attrazione: quando gli individui sono troppo distanti dal gruppo, tendono a riavvicinarsi.

Per rendere piu’ realistico il modello delle 3 zone si inserisce un cono di visione che determina un’area attiva di interazione. L’idea e’ di inserire nel modello l’area di percezione del singolo insetto. Per gli uccelli per esempio quest'area e’ legata principalmente alla vista, mentre per i pesci entra in gioco anche la linea laterale.

Per i Kilobot è stato ideato un algoritmo basato su un insieme di funzionalità anch'esse molto semplici, con l'obiettivo di consentire allo sciame di dare forma a sagome arbitrarie:

· un robot puo’ muoversi lungo la periferia di un gruppo di robot misurando la distanza dai robot sulla frontiera del gruppo

· un robot sorgente puo’ generare un messaggio che crea un gradiente nel propagarsi lungo lo sciame

· i robot possono formare un sistema di coordinate locali usando la comunicazione e la distanza dai primi vicini

I robot comunicano tra loro facendo rimbalzare i raggi infrarossi sulla loro superficie. Possono calcolare la distanza da altri robot semplicemente misurando come cambia la brillantezza degli infrarossi: piu’ varia l’intensita’ della luce e piu’ il robot che ha rimandato indietro il raggio e’ lontano. Non possono pero’ individuare la direzione della luce. La localizzazione quindi dipende da un gruppo iniziale di robot usati come semi per stabilire l’origine del sistema di coordinate rispetto al quale individuare la posizione degli altri robot (vedi schizzo sottostante).

Parte superiore dell’immagine: algoritmo utilizzato per i kilobot. Parte inferiore: viene decisa la forma da riprodurre e trasmessa ai robot. Questi utilizzando l’algoritmo a 3 regole spiegato nel testo formano un po’ alla volta la forma richiesta.

 

Una volta che i robot determinano la propria posizione, la procedura per creare una forma arbitraria e’ relativamente semplice : i robot cominciano a muoversi lungo il perimetro dello sciame fino a quando non rilevano di essere entrati nell’area dove la forma verra’ creata. Ogni robot continua a muoversi lungo il perimetro dei robot che sono gia’ all’interno della forma fino a che arriva in prossimita’ dei confini della sagoma o fino a quando non sono a contatto con altri robot gia’ posizionati. In questo modo seguendo 3 semplici regole viene realizzata la forma voluta.

Una collettività di oltre 1000 robot può essere effettivamente considerata uno sciame poiché l'importanza di un singolo robot è in pratica nulla, ed e’ proprio questa una delle principali caratteristiche di uno sciame: il singolo robot può funzionale male o danneggiarsi, ma all'interno dello sciame ve ne sono così tanti che in ultima analisi è il comportamento collettivo a prevalere su quello del singolo.

Data un'immagine bidimensionale i kilobot seguono delle semplici regole per formare la forma voluta. L’effetto e’ simile a quello di uno stormo di uccelli che piroiettano nel cielo. Ad un certo punto non vediamo piu’ il singolo uccello ma vediamo lo stormo come un tutt’uno.

 

Quale sara’ il prossimo passo?

In natura gruppi di migliaia, milioni, miliardi d’individui possono auto-assemblarsi in una grande varieta’ di forme grazie alla semplice interazione locale. Questo motiva nuovi esperimenti con avanzati algoritmi collettivi capaci di rilevare i robot malfunzionanti e recuperare eventuali danneggiamenti esterni, come anche progettare nuovi robot piu’ stabili e fisicamente attaccabili gli uni agli altri per auto-assemblarsi.

 

Video 1: Introduzione ai kilobit

http://youtu.be/ISMwLCFwgK4

Video due: L'uso di un piccolo numero di kilobot

http://youtu.be/Lx8rvBB_A7I

Per approfondire:

ftp://ftp.deas.harvard.edu/techreports/tr-06-11.pdf

sabato 14 febbraio 2015

Il tempo. Questione di complessita’'?

 

Tutti siamo convinti del fatto che il tempo scorra sempre in avanti senza mai poter tornare indietro. Ma quale meccanismo e’ alla base di un tale comportamento?

Le leggi fondamentali della fisica non dipendono dalla direzione temporale, eppure il futuro e’ cosi significativamente diverso dal passato. Ma perche’? L’origine della freccia del tempo ha interessato fisici e filosofi per piu’ di un secolo. Questi hanno cercato di trovare una soluzione ma senza riuscirci. Ancora oggi questa legge rimane uno dei problemi fondamentali concettuali della fisica. In uno studio recente pubblicato sul giornale Physical Review Letters un gruppo di fisici dell’Universita’ di Oxford ha studiato proprio la “freccia del tempo” evidenziando un modo diverso di guardare a come il tempo si manifesta alle scale universali. Tradizionalmente, il tempo e’ stato descritto con “l’ipotesi del passato”, secondo la quale ogni sistema inizia in uno stato di bassa entropia per poi, guidato dalla termodinamica, portarsi in uno stato con entropia sempre maggiore. In parole semplici: il passato e’ bassa entropia e il futuro alta entropia, un concetto conosciuto come l’asimmetria del tempo termodinamico.

Nella nostra vita di tutti I giorni, possiamo trovare molti esempi di aumento di entropia, come il gas che riempie una camera o un cubetto di ghiaccio che fonde. In questi esempi, si osserva un aumento irreversibile di entropia (e quindi di disordine). Se questo viene applicato su scala universale, si presume che il Big Bang abbia generato l’universo partendo da uno stato di minima entropia. Dopo eoni, mentre l’universo si espandeva e si raffreddava, l’entropia ha iniziato ad aumentare. Per questo motivo il tempo e’ intrinsecamente collegato col grado di entropia, o disordine, del nostro universo. Ma ci sono alcuni problemi.

Subito dopo il Big Bang, il primo universo era un posto molto caldo pieno di particelle primordiali caotiche. Non appena l’universo inizio’ a raffreddarsi, la gravita’ prese il sopravvento rendendo l’universo piu’ ordinato e piu’ complesso: dal raffreddamento delle nuvole di gas, iniziarono a formarsi le prime stelle e poi i pianeti. Questo rese possibile l’inizio della chimica organica, della vita e quindi degli umani che iniziarono a filosofeggiare circa il tempo e lo spazio. Su scala universale, percio’, il disordine effettivamente e’ diminuito e non aumentato come previsto “dall’ipotesi del passato”. Come e’ possibile? Siccome l’entropia e’ una quantita’ fisica dimensionale c’e’ la necessita’ di un riferimento esterno rispetto al quale misurarla. Questo puo’ essere fatto solo per sottosistemi dell’Universo e non per l’intero Universo, in quanto per definizione non c’e’ nulla all’esterno dell’Universo. Quindi se non e’ l’entropia a guidare il tempo in avanti di cosa si tratta? La complessita’ e’ una quantita’ adimensionale che descrive quanto e’ complesso un sistema. Quindi se uno guarda al nostro Universo, la complessita’ e’ direttamente collegata col tempo; come il tempo scorre l’Universo diventa sempre piu’ organizzato e strutturato.

Chi ha posto l’Universo inziale in uno stato di minima entropia? La risposta del team di studiosi e’: la gravita’ e la sua tendenza a creare ordine e complessita’ dal caos. Per provare questa ipotesi il gruppo di fisici ha creato dei modelli al computer per simulare le particelle in un universo virtuale. Essi hanno trovato che indipendentemente dalla simulazione utilizzata, la complessita’ dell’Universo aumenta sempre e non decresce mai col tempo.

Con il Big Bang, l’universo e’ partito da uno stato di minima complessita’ (un brodo di particelle ed energia). Da quel momento in poi col susseguente raffreddamento la gravita’ inizio ‘ a prevalere sulle altre interazioni: i gas cominciarono ad aggregarsi, si formarono le stelle e le galassie cominciarono ad evolversi. L’universo divento’ inesorabilmente piu’ complesso con la gravita’ la forza responsabile dell’aumento della complessita’. Ogni soluzione del modello gravitazionale utilizzato dal gruppo di ricercatori ha la proprieta’ di avere qualche stato passato molto omogeneo caotico (eventualmente proveniente dalla contrazione precedente della materia) e non strutturato che assomiglia molto al plasma che costituiva l’universo al tempo in cui veniva generata la radiazione di fondo cosmica (CMB).

A partire da questo stato col passare del tempo la gravita’ aumenta le inomogeneita’ creando le strutture cosmiche e quindi l’ordine in modo irreversibile. Come l’universo matura, i suoi sotto sistemi diventano abbastanza isolati da far si che altre forze comincino a far sentire I loro effetti e quindi a settare nei sistemi a bassa entropia le condizioni per avere la classica freccia del tempo. In questi sotto sistemi, come la nostra Terra, l’entropia crea una freccia termodinamica del tempo.

L’Universo e’ una struttura la cui complessita’ e’ in crescita. Esso e’ formato da miliardi di galassie separate tra loro da vaste “bolle” vuote. In un passato lontano erano molto piu’ vicine di adesso. Quindi la congettura del team di ricerca e’ che la nostra percezione del tempo risulti da una legge che determina una crescita irreversibile della complessita’.

Il prossimo passo sara’ quello di cercare delle evidenze dalle osservazioni dell’universo. Il team ha stabilito quali tipi di esperimenti mettere in piede per testare la loro idea. Si trattera’ di fare le giuste osservazioni cosmologiche.

Risolto quindi il problema della freccia del tempo? Probabilmente ancora no. Rimane il mistero del perche’ le frecce del tempo di diversi sistemi fisici puntano tutte nella stessa direzione. Le onde elettromagnetiche vengono ritardate non anticipate; I nuclei radioattivi decadono e mai si riassemblano; I sistemi gravitazionali si aggregano e mai si disperdono; noi tutti ricordiamo il passato e non il futuro. Quello che andrebbe dimostrato e’ che effettivamente queste disparate frecce temporali puntano tutte nella stessa direzione indicata dal modello gravitazionale proposto. Comunque i risultati presentati dagli scienziati di Oxford forniscono un nuovo intrigante punto di vista. La loro visione offre l’evidenza che l’ordinaria dinamica gravitazionale (quella Newtoniana per intenderci) puo’ essere sufficiente a produrre un semplice punto iniziale che puo’ dare una direzione al tempo. Non ci resta che aspettare ulteriori sviluppi futuri.

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